Anni di luce e di storie per l’Italia del cinema
Fernaldo Di Giammatteo

(Prefazione al libro "I Cineoperatori" volume 2°, 2000 Edizioni AIC)

Il segno è doppio, Da una parte le storie narrate, dall’altra la luce che le imprime sullo schermo. In mezzo, il complesso apparato del cinema. In mezzo o a cavallo: una grande macchina, una industria, una cultura. E, subito, una differenza: la macchina funziona, bene o male, a seconda che le storie siano belle o brutte, interessanti o noiose, geniali o inutili. Ma funziona sempre, bene o male che funzioni, perché la luce è stata catturata dall’obiettivo, fissata sulla pellicola in maniera da poter essere trasferita sullo schermo, in quel grande rito collettivo - il rito più clamoroso dell’era moderna - che è la proiezione cinematografica.

Il segreto del cinema, se ci si pensa bene, è un paradosso. Le storie possono anche essere brutte, o poco attraenti, o pasticciate, o squallide, o addirittura inesistenti (quanti film si basano su narrazioni che non narrano nulla?). Anche la luce, che serve a incidere sulla pellicola l’impronta dell’uomo e del mondo, potrebbe essere brutta, ma in realtà non lo è mai. Non lo può essere, perché se lo fosse cadrebbe la ragione stessa - dunque l’esistenza - del film. La fotografia può essere più o meno adeguata (o brillante, o riuscita, o espressiva, o inventiva). Nulla al di sotto di questa soglia minima. Non si concepisce, non lo si é mai concepito fin dagli inizi, che la luce di un film non assolva al suo compito.

La storia prima di essere fatta di immagini è stata consegnata alle parole. Christopher Vogler, story analist americano, ingegno fine e concreto, ricorda: "Quando insegnamo ai bambini a usare le lettere per formare le parole (in inglese spelling), quando si compone correttamente una parola, in effetti si sta pronunciando un incantesimo (spell in inglese significa incantesimo), riempiendo questi simboli astratti e arbitrari di significato e potere" (Il viaggio dell’eroe, Dino Audino editore, 1999, p. 179). Dalla manipolazione dei "simboli astratti e arbitrari" nascono le storie - della letteratura e del cinema - e possono nascere bene o male. La luce non è, invece, né astratta né arbitraria, anche se, più ancora delle parole, può esercitare un incantesimo. Dalla luce nascono le immagini della pellicola, e per loro esiste una sola alternativa: o nascono o non nascono, non c’è bisogno di munirle di significato e di potere perché già li posseggono entrambi nel momento in cui - si perdoni il bisticcio - vengono (se vengono) alla luce. Concretezza contro astrazione, insomma.

Quale modello di film si potrebbe immaginare più concreto di quell’avventuroso prodotto del neorealismo che fu girato quando la seconda guerra mondiale stava terminando e che apparve sugli schermi nel 1945 con il titolo Roma città aperta? La fotografia di Ubaldo Arata fu un prodigio di abilità, di coraggio e di pazzia: la luce proveniva da un sistematico furto di energia elettrica sottratta a un comando delle forze alleate e utilizzata per accendere proiettori di fortuna; la pellicola che quella luce raccoglieva era composta di scarti di magazzino ed era perlopiù scaduta; gli ambienti per gli interni, ricavati dalla Sala Corse di via degli Avignonesi, erano quanto di più inadatto si potesse trovare per girarvi un film con macchine da presa e accessori ingombranti (le attrezzature leggere erano di là da venire).

La storia di don Pietro, di Manfredi, di Pina e del maggiore Bergman arieggiava un episodio vero della resistenza romana, sapeva di improvvisazione, era impastata di tragedia e di farsa, come se gli autori (Roberto Rossellini, Sergio Amidei, Alberto Consiglio e Federico Fellini) non avessero la chiara coscienza del risultato da ottenere. Ne uscì un capolavoro. Per molte ragioni. Perché Rossellini - lo sguardo di Rossellini - seppe trovare un ideale punto di equilibrio fra i diversi elementi del racconto e lo tenne fermo, con grande energia e lucida convinzione, dall’inizio alla fine. Così, una storia né bella né brutta ebbe sullo schermo il suo riscatto e diede origine a un film tra i più memorabili della storia del cinema italiano.

Sull’altro versante - il versante della concretezza - avvenne l’autentico prodigio, perché Arata non solo riuscì a far "vivere" la luce pur disponendo di mezzi rudimentali ma fu anche in grado di imporre la propria concezione della fotografia cinematografica, lui vecchio professionista formatosi durante il muto, in quel periodo cruciale rappresentato, per la tecnica e lo stile, dagli Anni Venti. Era stato negli Anni Venti, infatti, che aveva acquisito dimestichezza con l’estetica dell’espressionismo, tanto da poterla sfruttare per uno dei suoi capolavori (Rotaie, 1929 di Mario Camerini) e per farne tesoro in seguito, quando avrebbe collaborato con Max Ophüls (La signora di tutti, 1934) e con Guido Brignone (Passaporto rosso, 1935). Per questo, gli interni angusti di Roma città aperta, dove i tedeschi torturano Manfredi, recano impresso il marchio espressionista (in una inquadratura si vede sulla parete l’ombra deformata di una pressa) e testimoniano una fedeltà alle proprie origini e una sensibilità stilistica che intimamente si fondono con il significato della storia e con la visione del regista. Quando ciò accade, la concretezza della luce incrementa il valore del risultato e assorbe in sè le eventuali scorie presenti nel racconto.

Il cinema italiano della guerra (ricordiamo soltanto La peccatrice, 1940, di Amleto Palermi, fotografia di Vaclav Vich; Piccolo mondo antico, 1941, di Mario Soldati, fotografia di Carlo Montuori e Arturo Gallea; Fari nella nebbia, 1942, di Gianni Franciolini, fotografia di Aldo Tonti; Quattro passi tra le nuvole, 1942, di Alessandro Blasetti, fotografia di Vaclav Vich; Ossessione, 1943, di Luchino Visconti, fotografia di Aldo Tonti e Domenico Scala) costituisce, come tutti sanno, la premessa di quella stagione che andò sotto il nome di neorealismo, e contiene i germi, già vitali, di una "rivoluzione" non solo ideologica ma anche figurativa e linguistica. Una rivoluzione che, dapprima con il bianco e nero e poi con il colore, diventerà uno dei fenomeni culturali più cospicui della seconda metà del Novecento. Sarà la "pasta" della stessa luce a trasformarsi, in concomitanza con l’evolversi delle idee e delle storie (e con il progredire della chimica fotografica e della tecnologia degli strumenti di ripresa).

Su tutto, sempre domina, e guida, la coppia formata dal regista e dal direttore della fotografia. Osservò una volta Otello Martelli, ed è un’osservazione pertinente: "Fellini nella Dolce vita ha usato le ottiche che lui voleva, andando contro i principi secondo i quali si debbono usare certi obbiettivi. La verità è che io sono come Fellini: mi piace sperimentare le cose nuove. Fellini ha voluto adoperare sempre obbiettivi a lungo fuoco e non si curava della profondità focale. L’ho fatto notare a Federico, ma lui rispondeva: Che cosa ce ne importa? Aveva perfettamente ragione". Vale per la fotografia cinematografica quel che vale per ogni pratica artistica e che si può sintetizzare nella formula: le regole sono fondamentali ma servono soltanto se rappresentano uno stimolo a violarle. Tutta la storia del cinema è un succedersi di violazioni, fruttuose sovente, talvolta dannose o catastrofiche. Ma nessuna inutile.

La violazione più recente risaliva al 1941 e veniva dagli Stati Uniti, per opera dell’eccellente Gregg Toland. Poco prima l’operatore aveva fatto alcuni esperimenti con William Wyler per Piccole volpi , (1941), ma fu solo con Quarto potere di un Orson Welles esordiente che portò alle conseguenze estreme la scommessa del deep focus, allo scopo di offrire al regista la possibilità di adottare nuove soluzioni narrative. Come per tutte le innovazioni importanti, non si trattò di una manovra fine a se stessa. Usando obiettivi grandangolari e chiudendo il diaframma al massimo in presenza di zone fortemente illuminate dentro la inquadratura, Toland tenne a fuoco i diversi piani dello spazio dove si svolgeva l’azione, e permise così al discorso di fluire senza stacchi e agli attori di spostarsi in tutte le direzioni conservando la scioltezza di movimenti che la continuità garantiva.

E’ esattamente il contrario di quel che faranno Fellini e Martelli con La dolce vita, usando gli obiettivi a lungo fuoco e trascurando la profondità di campo, concordi nel violare una consuetudine (Toland e Welles avevano lasciato il segno) e pronti a spremere dalla "trasgressione" tutto il bene loro, e del film. Come nello stesso anno faranno Roberto Rossellini e Carlo Carlini introducendo in Era notte a Roma quel procedimento del "carrello ottico" proveniente dalla Francia con il nome di Pancinor e più tardi universalmente noto come zoom. La lunghezza focale variabile consente di passare senza interruzione dal grandangolo al teleobiettivo (e viceversa), favorendo così lo spostamento dei personaggi in asse, preceduti o seguiti in carrello virtuale: qui i tre prigionieri di guerra evasi dal campo di concentramento e nascosti in soffitta da una popolana. A differenza del carrello fisico, ottenuto con l’uso di una sola focale applicata alla macchina da presa in movimento, lo zoom tende a sfocare i contorni quando è sulla posizione del tele e a deformarli quando raggiunge il grandangolo. Tocca al direttore della fotografia armonizzare i contrasti e sfruttare tutte le possibilità - scioltezza di movimenti, maggiore penetrazione nello spazio - che l’obiettivo gli mette a disposizione.

E’ quel che Carlini riesce a fare, in stretta collaborazione con un regista per il quale la tecnica cinematografica non ha segreti (essendo egli stesso costruttore e manipolatore dei più disparati congegni di ripresa e di montaggio). Sicché, l’arrivo dei prigionieri (Sergej Bondarchuk, Leo Genn e Peter Baldwin) nella soffitta di Esperia (Giovanna Ralli), così morbido e fluido, traduce in immagini il senso di liberazione e di sollievo che la vicenda esprime. Come ovunque, la tecnica costituisce una sfida che ogni volta si ripresenta all’attenzione, e all’ingegno inventivo, di chi se ne serve. Ossia, di nuovo e sempre, di colui che struttura la storia e di colui che, attraverso la luce, la fa vivere sullo schermo.

Quelli del dopoguerra furono per la cultura italiana anni di confusione e di entusiasmo. Fu un breve periodo in cui il buio più fitto (la incapacità di comprendere quel che significava, in un paese sconvolto dalla guerra, la transizione dal fascismo alla democrazia) e la luce più intensa (i nuovi ideali, la scoperta delle altre culture per molto tempo cancellate o respinte dal regime) si sommano e impediscono che si tenti di mettere ordine in una realtà così caotica. Cadono molte certezze, alcuni si aggrappano come naufraghi alle ideologie di maggior peso (il marxismo, l’esistenzialismo, lo spiritualismo), altri si abbandonano allo scetticismo e scelgono di affrontare ogni esperienza senza chiedersi le ragioni dell’impegno. La grande stagione del neorealismo favorisce la nascita di un sano (vigoroso e aggressivo a volte) empirismo. Fra stabilità e instabilità, fra illusioni e furori, tra severi propositi e gioia di vivere, si giocano le sorti della cultura e, soprattutto, della sua componente più vitale che è rappresentata dal cinema.

Fra tutti, coloro che appartengono alla variegata categoria dei tecnici gli operatori sono quelli che meglio - meglio nel senso di più spavaldamente - vivono la contraddizione. Sono sempre pronti ad ogni azzardo, come l’Arata che gira con pellicola scaduta e in condizioni precarie, ma non dimenticano mai le esigenze, durissime, della concretezza, ossia della realtà, e vi fanno fronte con la tecnica di cui sono padroni. Rivelano anche, in momenti spesso attraversati dall’esplodere delle più clamorose presunzioni, l’umiltà innata dell’uomo di mestiere, solo preoccupato di condurre in porto senza danni la barca di un lavoro svolto al servizio del film. Più tardi si affaccerà alla ribalta qualche vanesio (é normale fra esseri umani) ma, come si dice, non farà testo.

Il gusto (la necessità) della concretezza li salverà anche dal cadere nella trappola dei sofismi di cui la critica si diletterà all’epoca della polemica sul neorealismo e il realismo, in occasione dell’uscita di Senso, 1954. Il caso, che é sempre maligno, vuole che il film di Visconti (fotografia di G. R. Aldò e di Robert Krasker) giunga sugli schermi quando nelle librerie si affaccia Metello, uno dei romanzi più significativi del "realista" Pratolini. A proposito del testo letterario Carlo Salinari osserva che l’opera, così precisa nei riferimenti storici e ambientali e così tipica di un mondo ben individuato, segna "la fine del neorealismo e l’inizio del realismo", assumendo "lo stesso posto che Senso di Visconti, nonostante le molte opinioni discordi, finirà per assumere nella storia del nostro cinema più recente" (Il Contemporaneo, 12 febbraio 1955). Luigi Chiarini obietta che si tratta piuttosto di uno spettacolo, imperniato essenzialmente sulle convenzioni teatrali e figurative del genere, e non di un film fedele alla vocazione realistica del linguaggio cinematografico. Tradisce il neorealismo, sostiene il critico. Un altro critico, Guido Aristarco, taglia netto: "E’ realismo".

Se si ragiona a mente fredda, dimenticando i termini di una polemica tutta ideologica, ci si rende conto che la contrapposizione spettacolo-film non aiuta a comprendere la novità rappresentata dall’opera di Visconti, spettacolo (e grande spettacolo) senza dubbio, ma tutto risolto sul terreno del linguaggio cinematografico. Per capire la novità bisogna entrare nel merito del linguaggio che crea un sottile gioco di specchi e di inganni visivi, che prepara ed esaspera le tensioni psicologiche fra Livia e Franz attraverso un uso drammatico dei colori, dai bianchi e dagli ori squillanti della Fenice ai neri e agli azzurri delle calli veneziane, dalle morbide dolcezze dei verdi nei campi che circondano la villa di Aldeno ai forti contrasti di rossi accesi, di gialli sporchi, di aloni nerastri durante la battaglia di Custoza, dal rosso cupo dell’appartamento veronese di Franz a quel fondo violaceo nel totale su cui si agitano le piccole macchie bianche (è un campo lungo) delle uniformi austriache, ai gialli guizzanti delle fiaccole nella sequenza della fucilazione.

I colori, appunto. Che si tratti di realismo è secondario. Si tratta sicuramente di melodramma, al quale la magnifica tavolozza di G.R. Aldò e di Robert Krasker fornisce il contributo decisivo della concretezza. Le intenzioni e lo stile narrativo del regista prendono forma nella fotografia. Quali che siano state le premesse ideologiche, quale che sia l’apporto della cultura dell’autore (fra realismo ottocentesco, decadentismo, pittura italiana del naturalismo, frequentazione assidua dell’opera lirica), sono l’occhio, la sensibilità e la tecnica di chi ha tradotto la luce in immagini a far vivere la materia del film. Le formule e i pregiudizi non sfiorano la mente di chi deve attenersi ai dati del reale e restituirli intatti alla realtà della pellicola. Per lui non ha senso, nel momento in cui utilizza gli strumenti della sua professione, partecipare al coro stonato dei sofisti che trascurano l’essenza del linguaggio per costruire i loro castelli teorici. Castelli facili da demolire, basta che cambi il vento, mentre nulla può demolire, tranne la maledetta usura del tempo (ma qualcosa si troverà per arrestarla), la sostanza delle immagini create dalla luce.

Qui val la pena di rammentare, come curiosità ma non solo, l’apporto che a Senso diede l’esordiente Giuseppe Rotunno, chiamato da Visconti ad assumersi la responsabilità della fotografia per l’episodio della fucilazione di Franz. La scena non fu girata a Verona ma sugli spalti di Castel Sant’Angelo e costrinse Rotunno a una piccola acrobazia per ottenere che l’unica fonte di luce risultassero le fiaccole dei soldati schierati intorno al plotone di esecuzione. Occorreva non solo nascondere i proiettori – cosa non semplice in quell’ambiente aperto – ma anche impedire che luci di taglio o in controluce alterassero la realistica (e fioca) illuminazione frontale. Il primo a stupirsi dell’acrobazia riuscita fu il regista, che non fu subito in grado di scoprire dove Rotunno avesse nascosto i proiettori.

È interessante esaminare i variabili rapporti fra i registi e i direttori della fotografia. A volte si formano coppie che proseguono unite per un lungo tratto, a volte (più spesso) si assiste a incontri brevi che si risolvono nella realizzazione di uno o due film e che eventualmente si ripetono dopo qualche tempo. Molte sono le ragioni di questa variabilità. La più frequente è quella che può sembrare la più banale: spesso i rispettivi impegni non coincidono e le date non concordano, tanto da frustrare il proposito di una collaborazione auspicata dalle due parti. Un esempio di "fedeltà" che probabilmente non ha eguali è quello che unisce per lunghi anni e parecchi film Tinto Brass e Silvano Ippoliti: un accordo perfetto che produce immagini di levigato erotismo.

Un altro caso, di tipo completamente diverso, è quello della duratura colleganza fra Bernardo Bertolucci e Vittorio Storaro. Nacque nel 1970 per La strategia del ragno e per Il conformista (che fece vincere a Storaro il premio Gianni Di Venanzo), proseguì nel 1972 per il celebrato Ultimo tango a Parigi, nel 1976 per il colossale Novecento e nel 1979 per La Luna. Dopo un lungo intervallo la collaborazione riprende nel 1987 con un altro film colossale (L’ultimo imperatore) in cui la fotografia svolge un ruolo preminente – si ricorda soprattutto il telone giallo sollevato al momento della presentazione del piccolo Pu Yi alla folla dei dignitari schierati ai lati della scalinata – e trova nuovi stimoli in un film bruciato dalla luce africana (Il tè nel deserto, 1990) e in una ingenua variazione parareligiosa (Piccolo Buddha, 1993).

Interessante è stato anche il sodalizio di Otello Martelli con Fellini, culminato splendidamente con La dolce vita, ma preceduto da quattro risultati pregevolissimi (I vitelloni, 1953; La strada, 1954; Il bidone, 1955; Le notti di Cabiria, 1957). Si potrebbe continuare, passando dalla affiatata coppia Marco Bellocchio-Giuseppe Lanci (Salto nel vuoto, 1979; Gli occhi e la bocca, 1982; Enrico IV, 1984; Il diavolo in corpo, 1985; La visione del Sabba, 1987, che è forse il risultato più persuasivo ottenuto dai due; La condanna, 1990) a quei curiosi tentativi di creare atmosfere surreali in un quadro iperrealistico che hanno visto alleati un regista controcorrente, talvolta smarrito, come Aurelio Grimaldi e il giovane direttore della fotografia Maurizio Calvesi (La discesa di Aclà a Floristella, 1991; Le buttane, 1994; Nerolio, 1996).

Da tutti questi esempi, e dai numerosi altri che si potrebbero proporre, si ricava una constatazione ovvia, ma di solito trascurata dalla critica. La seguente, detta in termini semplici, e magari provocatori: i successi e gli insuccessi dei film non possono essere giudicati, e nemmeno compresi, se non si analizza il rapporto che prima e dopo la lavorazione si stabilisce, e progressivamente si sviluppa, fra il regista e il suo direttore della fotografia, non tanto per individuare i relativi meriti (e demeriti) quanto per misurare il grado di fusione raggiunto tra due culture, due sensibilità, due orizzonti tecnici, due stili, due modi di interpretare il linguaggio audiovisivo.

Curioso, ma i generi – che pure richiedono continuità e stabilità – non sono quasi mai il luogo in cui si può misurare il grado di fusione tra regista e direttore della fotografia. Per esempio, il genere storico-mitologico (il péplum secondo i francesi) vede in principio Mario Bava – quando si dedicava alla fotografia e agli effetti speciali, di cui divenne maestro – al servizio di Piero Francisci per il primo film della serie Le fatiche di Ercole, (1958). Poi vennero Amerigo Gengarelli che fotografò Orazi e Curiazi (1961) di Ferdinando Baldi, Carlo Carlini che fornì immagini suggestive a un film non solo sfarzoso ma anche intelligente di Vittorio Cottafavi, Ercole alla conquista di Atlantide, (1961), ed Enzo Barboni che collaborò con Sergio Corbucci per I figli di Spartacus (1962). D’altronde, le escursioni mitologiche o pseudostoriche del cinema italiano erano sempre nate – prescindendo dai colossi del muto – senza programmi precisi, per iniziativa isolata di produttori alla ricerca del grande successo spettacolare, come avvenne nel 1941 con La corona di ferro di Alessandro Blasetti (fotografia di Vaclav Vich e Mario Craveri) o nel 1947 con Fabiola, ancora del magniloquente Blasetti (fotografia di Mario Craveri e Ubaldo Marelli).

Anche la commedia all’italiana rivela una analoga discontinuità sul terreno della fotografia. A Poveri ma belli (1956) di Dino Risi collabora Tonino Delli Colli, mentre a Una vita difficile (1961) e a Il sorpasso (1962) dello stesso regista presteranno la loro opera, rispettivamente, Leonida Barboni e Alfio Contini. I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli si gioverà della fotografia di Gianni Di Venanzo, Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini di quella di Carlo Carlini. Con Luciano Salce la situazione cambia, ma si tratta davvero di un caso isolato: sia Le pillole d’Ercole (1960) che Il federale (1961) e La voglia matta (1962) si avvalgono della fotografia di Enrico Menczer, che è stato a lungo operatore di macchina con Di Venanzo.

Si potrebbe anche sostenere che un genere come la commedia all’italiana – imperniato soprattutto sul dialogo, sul gioco degli attori e sulla scioltezza del ritmo – non richiede un particolare stile fotografico, essendo sufficiente che le immagini si adeguino al fluire incalzante dell’azione comica. Un tardo prodotto della serie – Speriamo che sia femmina (1986) di Monicelli – si snoda di inquadratura in inquadratura (fotografia di Camillo Bazzoni) con la scioltezza che il genere richiede ma senza una precisa caratterizzazione ambientale (siamo in Toscana ma potremmo essere ovunque).

Meglio, si dovrebbe aggiungere che, se in certi generi (come la commedia all’italiana) un autore non ha bisogno di un alto grado di fusione con chi crea le immagini, in altri, pure fortemente codificati, non ne può prescindere. Tipico è il caso di quel capolavoro di manierismo che fu definito western all’italiana (o western spaghetti, come dissero gli americani in un tono fra lo spregiativo e l’ammirato) e che trovò in Sergio Leone il suo mentore più ancora che il suo autore. Le opere maggiori del regista hanno la fotografia di Massimo Dallamano (Per un pugno di dollari, 1964, e Per qualche dollaro in più, 1965) e di Tonino Delli Colli (Il buono, il brutto e il cattivo, 1966, e C’era una volta il West, 1968). Leone tende alla omogeneità fotografica, esige che il suo stile di ripresa (angolazioni dal basso, primi e primissimi piani, movimenti di esasperante lentezza, vertiginose aperture di zoom, campi lunghissimi) si rifletta nei colori saturi e fiammanti delle immagini e perciò sente la necessità del sostegno prolungato e creativo di chi quelle immagini produce.

Con Tonino Delli Colli tornerà a collaborare per quella saga del gangsterismo che sarà, nel 1984, C’era una volta in America. Affascinato e scettico, ironico e serioso, Delli Colli partecipa con una dedizione assoluta al delirio di onnipotenza di un regista che si è addirittura identificato con il cinema. La durata dell’azione sullo schermo è spezzata, alterata e ricomposta come un Joyce o una Virginia Woolf sognarono di fare ma con la sola letteratura non poterono. Le immagini del presente (Noodles, il gangster ormai fuori del gioco, per dimenticare s’è rifugiato nell’antro della fumeria d’oppio che Delli Colli rende soffocante attraverso un ingegnoso sfruttamento della luce delle candele) vengono incastrate nelle immagini delle differenti epoche in cui si è sgranato il cinquantennio dell’azione e Leone le fa reagire le une sulle altre

Il film diventa una macchina della memoria (e, insieme, della storia e del sogno) nonché un monumento alla cultura – l’americana – che l’ha costruita. C’era una volta in America stringe in un mazzo l’intera tipologia del cinema statunitense (i suoi generi, dal gangster al dramma, dall’horror alla commedia, dal giallo al melodramma) inserendola in una struttura temporale che comporta salti vertiginosi come nemmeno Welles o Kubrick avrebbero osato.

Eccoci dunque agli autori. Per Rossellini, e per le sue "infedeltà", esiste una sola spiegazione: il suo percorso è sempre stato tanto imprevedibile da negargli la sicurezza di una collaborazione stabile. Allo spregiudicato Ubaldo Arata di Roma città aperta succede l’anticonformista Otello Martelli per gli episodi di Paisà (1946); il Robert Juillard di Germania anno zero (1947) e di Amore (1948) cede il posto al Tino Santoni di La macchina ammazzacattivi (1948). Una eccezione nella discontinuità è rappresentata dal ritorno di Martelli – in quegli anni collaboratore di Giuseppe De Santis e prossimo a trasferirsi sotto le bandiere di Fellini – per Stromboli, terra di Dio (1949) e per Francesco, giullare di Dio (1950). Più tardi si avranno due altre eccezioni, con Carlo Carlini, La paura, (1954); Il generale Della Rovere, (1959); Era notte a Roma, (1960) e con Luciano Trasatti, Viva l’Italia, (1960); Vanina Vanini, (1961); Anima nera, (1962), ma Rossellini sarà ormai nella fase calante della carriera, alle soglie della esperienza televisiva, nella quale lo assisterà umilmente e abilmente Mario Fioretti. Dopo le contraddittorie prove di Europa 51 (1952) e di Dov’è la libertà? (1953), quando è accompagnato da quello spavaldo Aldo Tonti che lo seguirà temerariamente in India tre anni dopo, troverà in Enzo Serafin il "complice" ideale per un film di molta complessità e di forte impatto antropologico,Viaggio in Italia, (1953).

Vittorio De Sica fu altrettanto "infedele" quanto Rossellini, perché le condizioni del cinema italiano altro non permettevano, ma ebbe la fortuna di lavorare, dopo Ladri di biciclette (1948) che fu girato dal duttile Carlo Montuori, con un operatore di forte personalità – G.R. Aldò – al quale affidò tre delle sue opere più significative e, fra queste, la più significativa in assoluto, Umberto D. (1951), le altre essendo la pungente favola di Miracolo a Milano (1951) e il primo compromesso accettato nella speranza (vana) di coniugare popolarità, realismo e divismo (Stazione Termini, 1953).

G.R. Aldò (ossia Aldo Graziati) aveva alle spalle la originale esperienza viscontiana di La terra trema (1948), possedeva una sensibilità luministica fuori del comune e "portava in dote" a De Sica la leggerezza di tocco e le aeree sospensioni della storia dei barboni milanesi. La malignità, le bassezze, gli egoismi di una umanità degradata si contrappongono al candore dei buoni, nella estrema periferia di una città dove i palazzi della speculazione edilizia sono ancora circondati dai campi, e la luce ne sottolinea il contrasto, e intanto sfuma dentro le nebbie, si tinge di malinconia (il funerale della signora Lolotta con il carro seguito dal solo Totò è una superba pagina di cinema), si anima un poco quando un raggio di sole riesce a forare le nuvole, si accende nella "trionfale" marcia degli straccioni su piazza del Duomo da dove s’involeranno verso il regno dell’utopia.

Una luce grigia simile a quella della baraccopoli milanese invade le tetre stanze della pensione di Umberto D. dove il regista ambienta la tragedia di un vecchio sperduto in un mondo indifferente. Lo stile della fotografia non muta, s’incupisce soltanto, mentre muta lo sguardo di De Sica, non più affettuoso ma spietato. Il racconto vuole essere oggettivo, e in effetti lo è, ma non nasconde nulla della oscenità dell’egoismo umano. L’impianto lineare del film, di stampo classico, ha il distacco e la freddezza di un verbale di polizia. E con ciò De Sica e Zavattini finiscono di dilapidare un patrimonio di idee senza essere riusciti a incidere sulla realtà del consumo cinematografico. Ora sono costretti ad arrendersi al mercato. Stazione Termini (1953) è la storia di un banale adulterio interpretato da Jennifer Jones e da Montgomery Clift che né il suggestivo ambiente ferroviario né la effettata fotografia di Aldò riscattano dalla inconsistenza.

Con i sei episodi di L’oro di Napoli (1954) – cinque nella edizione che circola nelle sale perché Il funeralino è espunto dai distributori – torna Carlo Montuori, che rimarrà con De Sica anche per il tardo-neorealistico Il tetto (1956) prima di essere sostituito da Gabor Pogany al quale toccherà di fotografare in bianco e nero La Ciociara (1960), film di qualche pregio, e a colori Il giudizio universale (1961), satira confusa e fiacca. Il resto non aggiunge nulla né a De Sica né ai suoi operatori (Roberto Gerardi, Armando Nannuzzi, Giuseppe Rotunno, Jean Boffety, Leonida Barboni, Christian Matras, Pasqualino De Santis, Ennio Guarnieri).

Luchino Visconti, che ha avuto G.R. Aldò come collaboratore prezioso per La terra trema in bianco e nero, ne sfrutta la profonda sensibilità pittorica (fino a quando un incidente non lo stronca, a metà della lavorazione) per il sapiente affresco risorgimentale di Senso (1954) in cui si precisano le tensioni contraddittorie del suo stile, da una parte sorretto dalla veemenza sentimentale del melodramma e dall’altra appesantito da rigide premesse ideologiche. Ma in questo caso il risultato è positivo, luminoso nella veste figurativa, ora vigoroso ora insinuante nella struttura narrativa.

Con i film successivi entra in campo quel Rotunno che ha, per così dire, esordito con il frammento della fucilazione di Senso. Il bianco e nero di Le notti bianche (1957), leziosa riduzione di un racconto di Dostoevskij, è al tempo stesso brillante e morbido, mentre quello del successivo Rocco e i suoi fratelli (1960), una indagine sociale in forma melodrammatica, rivela asprezze e contrasti di grande efficacia. Nel 1963 è la volta del colore, perfettamente modulato, di Il Gattopardo, che riprende il discorso storicistico di Senso e offre al regista la possibilità di estrarre dallo splendore della veste figurativa tutti gli echi, le nostalgie (per un nobile e irrecuperabile passato), gli stridori che attraversano da sempre la sua filmografia.

Dopo la parentesi di Armando Nannuzzi, abile creatore di atmosfere per il modesto Vaghe stelle dell’Orsa (1965), si riaffaccia sullo schermo Rotunno, ma poco può fare la sua perizia nel trattare il colore contro la piattezza di una storia come quella di Lo straniero (1967) camusiano. Gli ultimi film, alcuni dei quali posseggono grande intensità narrativa, sono equamente spartiti fra Armando Nannuzzi e Pasqualino De Santis. La caduta degli dei (1969) vive di grevi atmosfere wagneriane (vi si narra dell’avvento del nazismo), Morte a Venezia (1971), ricavato da Thomas Mann, coglie bene il sapore di un’epoca – il primo Novecento – disegnando il ritratto di un musicista omosessuale durante una epidemia di colera nella città paralizzata dalla paura. Del primo si occupano insieme Nannuzzi e De Santis, del secondo il solo Nannuzzi (al quale Visconti affiderà nel 1973 il successivo, disorganico e gonfio Ludwig).

Un autore di grande coerenza, sul versante opposto a quello di Visconti, è Michelangelo Antonioni. Se Visconti ama la teatralità del melodramma, Antonioni ama l’immobilità che deriva dalla paralisi dei sentimenti. Infatti, non mette in scena l’immobilità fisica ma l’immobilità spirituale, e, grazie alla intelligenza di alcuni operatori (Enzo Serafin che l’accompagna nei primi tre film; Gianni Di Venanzo che fotografa il gruppo centrale delle opere in bianco e nero, con la sola eccezione di L’avventura, 1959, affidata ad Aldo Scavarda e da questi trattata con impeccabile competenza; Carlo Di Palma, Alfio Contini e Luciano Tovoli per il colore), la racchiude nella cornice di inquadrature che sembrano una sola inquadratura. La trilogia della cosiddetta incomunicabilità (termine volgare per un concetto importante) – L’avventura, La notte (1960) e L’eclisse (1962) – è un poema in prosa che narra l’errare di uomini smarriti, impegnati in una ricerca a vuoto. Immagine su immagine, il "commovente" bianco e nero di Di Venanzo (che già assistette il regista per Le amiche, 1955, e Il grido, 1957) dipinge le figure del teatrino dell’Italia che cambia sul fondale confuso della storia e della tradizione. Questi impasti di grigi permettono ad Antonioni di illustrare, senza passione, ciò che la borghesia non vorrebbe si illustrasse (l’irresolutezza, il cinismo, la sete di potere).

Con il colore, a cominciare da Deserto rosso (1964), il discorso si arricchisce di tonalità forti, come se il regista alzasse la voce non attraverso lo sviluppo narrativo ma attraverso il maggior peso – psicologico, ambientale, polemico – attribuito alle immagini. L’avventura nell’America della contestazione (Zabriskie Point, 1970, fotografia di Alfio Contini) e nell’Europa stralunata degli intrighi politici (Professione: reporter, 1974, fotografia di Luciano Tovoli, cui si deve il famoso piano-sequenza di sette minuti in chiusura) rivela come si possa esprimere, con furore rattenuto, la complessità sociale e coglierne il riflesso nella psicologia degli individui che la subiscono senza opporsi.

L’avventura esce quasi contemporaneamente a La dolce vita (1960) di Fellini. Sono i due film che sanciscono il passaggio dal neorealismo ad un cinema più sfaccettato, meno immediato, più riflessivo. Con Antonioni, Fellini è l’autore che possiede la più lucida coscienza del trapasso. Dopo l’ironico intenerimento sulle aspirazioni dei giovani provinciali (I vitelloni) e alcune patetiche meditazioni sul destino dei deboli e degli emarginati (La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria), il regista osserva la società che sta nascendo in questa caotica Italia del miracolo economico, per narrare la storia, meschina e significativa, di un uomo "inesistente", un giornalista ruffiano, precipitato nel mondo senza altro bagaglio che le sue illusioni. La dolce vita acquista nella fotografia di Otello Martelli un respiro ampio e un nitore narrativo che trascinano con sé anche le forzature e le trasformano in squarci di vita assurda (la vita, appunto, di un paese affannato). Con Otto e mezzo (1963) si salta dalla realtà alla deformazione della realtà. Con la complicità di un Di Venanzo più sornione del solito, Fellini indaga i tormenti – in parte veri e in parte immaginari – di un regista cinematografico, scelto come vivente emblema dell’intellettuale contemporaneo, e ne mette in luce, malignamente ma anche dolcemente, tutta la futilità.

Verranno poi le sfavillanti divagazioni a colori sui costumi, mediocri e spesso ridicoli quando non disgustosi, degli italiani. Ancora Di Venanzo fotografa, con gusto fantasioso, Giulietta degli spiriti (1965), mentre a Giuseppe Rotunno tocca il compito di inventare le luci barocche e volgari di Fellini-Satyricon (1969), quelle favolose di Roma (1972) e di Amarcord (1973), quelle struggenti di Il Casanova di Federico Fellini (1976), quelle angosciose (un piccolo capolavoro) di Prova d’Orchestra (1979), quelle evocative di La città delle donne (1980), uno dei film più slabbrati del regista, e di E la nave va (1983). Conclusa la lunga collaborazione con Rotunno (uno degli esempi di più tenace e produttiva "fedeltà"), Fellini si affida a Tonino Delli Colli per le tre ultime, e diseguali, opere, girate fra il 1985 e il 1989 (Ginger e Fred, Intervista, La voce della luna).

Fra le tante memorabili esperienze che Delli Colli ha avuto, una va posta in primo piano, ed è la collaborazione, reciprocamente fruttuosa, con Pasolini, del quale ha fotografato tutti i film in bianco e nero ed alcuni di quelli a colori (fastosi al limite del compiacimento Il Decameron, 1971, e I racconti di Canterbury, 1972; oppressivo nelle immagini come è oppressivo nella struttura narrativa Salò o le centoventi giornate di Sodoma, 1975). La pasta fotografica e la luce "sporca" di Accattone (1961), Il Vangelo secondo Matteo (1964) e Uccellacci e uccellini (1966) basterebbe a esaltare la qualità dell’intesa che si stabilì fra i due, grazie agli stimoli e alle provocazioni che il regista neofita riversava un poco maniacalmente su Delli Colli.

Qualcosa di simile accadde a Mario Vulpiani che affrontò le bizze di un regista insofferente di regole come Marco Ferreri, inizialmente ondivago nella scelta dei direttori della sua fotografia (ebbe due felici incontri con Aldo Tonti per La donna scimmia, 1964, e L’uomo dei cinque palloni, 1965). Fra i numerosi film girati insieme si debbono segnalare lo stravagante (anche fotograficamente) Dillinger è morto (1969) e il claustrofobico La grande abbuffata (1973), sul quale la fotografia posava quella coltre di colori cupi che mirabilmente fissava il carattere funereo della storia. A questo precedente si sarebbe rifatto Luciano Tovoli per fotografare il disperato e sarcastico Ciao maschio (1978) e per ricavare dalla New York di Ferreri tutti gli umori di una negazione nichilistica della civiltà moderna (e giocherà, per così dire, al rialzo, con un generoso sfoggio di invenzioni formali).

Un altro autore che ha sempre prestato molta attenzione alla "veste" dei suoi film è Ettore Scola. Dapprima con Alessandro D’Eva (Se permettete parliamo di donne, 1964; La congiuntura, 1964; l’episodio "il vittimista" di Thrilling, 1965), poi – dopo una parentesi con Aldo Tonti, l’operatore capace di adattarsi ad ogni situazione – con Claudio Cirillo, Carlo Di Palma, Pasqualino De Santis, Dario Di Palma, Tonino Delli Colli, Claudio Ragona, Armando Nannuzzi e Ricardo Aronovich, il regista persegue tenacemente un personale discorso non solo tematico ma anche figurativo. Due sono i casi più significativi in questa multiforme, ma omogenea, carriera. Il primo ha per protagonista Cirillo, che avvolge in teneri colori la storia amara di C’eravamo tanto amati (1974). Il secondo riguarda Claudio Ragona che seppe "massacrare" il volto dell’attrice protagonista di Passione d’amore (1981), affinché la bruttezza della donna facesse emergere pienamente il senso del film (l’attrice fu a modo suo eroica nel subire un trattamento che Ragona giustificò così: "Quando appare per la prima volta ho sottolineato l’impatto con la sua bruttezza mediante certi obiettivi, con una luce che metteva in risalto il suo naso un po’ curvo, non addolcendo ma esaltando i difetti di Valeria D’Obici"). Per contro, la bella fotografia di Aronovich sarà ammiccante in Ballando ballando (1983) e scura il necessario per descrivere l’atmosfera di La famiglia (1987). Con il secondo film Scola narra una saga borghese nello stile ridondante e lento che fu del cinema americano anni quaranta e cinquanta, e questa è, nel tono migliore di un regista "impegnato", elegia, puntualmente interpretata da Aronovich.

Un episodio da ricordare, nella prima fase neorealistica del cinema postbellico che si può recuperare qui, a contrasto (per sottolineare quanto i tempi e gli stili siano cambiati) è il sodalizio di Leonida Barboni con Pietro Germi. Operarono insieme da In nome della legge (1948) a Divorzio all’italiana (1961). Fu per entrambi il periodo più felice: oltre i due citati, si devono indicare Il cammino della speranza (1950), Il ferroviere (1955), Un maledetto imbroglio (1959). Barboni lavorava con lo scrupolo del professionista che applica alle storie la sapienza luministica e compositiva ereditata dalla tradizione: le improvvisazioni del neorealismo erano estranee al suo bianco e nero levigato, ricco di effetti, nitido in ogni angolo dell’inquadratura (perciò è a lui che si deve l’alone di epopea western in cui sono immersi non solo In nome della legge e Il cammino della speranza ma perfino il grottesco di Divorzio all’italiana). Germi in epoca neorealistica andava controcorrente, adoperando un linguaggio narrativo imperniato sulla sottolineatura forte degli snodi del racconto e sulla minuziosa elaborazione dei crescendi drammativi. Barboni lo assecondò con scrupolosa precisione perché condivideva la sua concezione "classica" del cinema.

Ansiosi di uscire dal recinto della tradizione narrativa, ma incerti sulla strada da prendere e al tempo stesso inclini alle vaghezze della fiaba, Paolo e Vittorio Taviani ondeggiano fra l’impegno direttamente politico (Un uomo da bruciare, 1962; I fuorilegge del matrimonio, 1964) e le allegorie un poco asfittiche (Sotto il segno dello scorpione, 1969, fotografia di Giuseppe Pinori). Sarà solo con San Michele aveva un gallo (1971, fotografia di Mario Masini) che riusciranno a trovare il giusto tono, narrativo e figurativo, e sapranno creare la necessaria "sospensione" ambientale intorno al protagonista, una figura di utopista rivoluzionario dell’Ottocento italiano. Masini li accompagnerà ancora in Padre padrone (1977), dove il realismo sfuma nella fiaba. Ma l’operazione riesce soltanto a metà, troppo indecisi i Taviani nel maneggiare una materia così compatta e drammatica (i rapporti tra un padre despota e un figlio ribelle, confinati in un arcadia civiltà contadina).

L’equilibrio lo ottengono con quello che tutti considerano il loro capolavoro: La notte di San Lorenzo (1982). Una felice coincidenza di fattori (la collaborazione alla sceneggiatura di un Tonino Guerra più sobrio del solito, la scelta azzeccata dei protagonisti e, soprattutto, la incisiva fotografia di Franco Di Giacomo che sottolinea con precisione azioni, luoghi e luci, dalla "notte magica" del 10 agosto allo sfolgorio del campo di grano sotto il sole durante lo scontro tra fascisti e partigiani) permette agli autori di accantonare gli impacci dei film precedenti e di mettere a fuoco il senso di una fiaba che assorbe gli orrori della guerra e le brutalità naziste senza trascurare il più ampio senso ideologico, e antropologico, di questa bella storia toscana.

Qualcosa della leggerezza qui conquistata la si ritrova in Kaos (1984), in particolare nell’episodio notturno Mal di luna, fotografia di Giuseppe Lanci; meno la si avverte in quella avventura letteraria, piuttosto ingessata anche se elegante (ancora di Lanci la fotografia), che si ispira temerariamente a Goethe: Le affinità elettive (1996). Il percorso dei Taviani é sinuoso, perché frutto di una cultura complessa, che non sempre approda all’esito sperato, e che costringe gli autori della fotografia a continue correzioni del tiro. In effetti, non é facile coltivare il campo della fiaba e della allegoria quando si è figli di una ideologia politica rigorosa.

Negli anni ottanta e novanta del secolo appena finito il cinema ha subito una trasformazione non solo tematica e culturale ma anche linguistica. Anzi, si direbbe, soprattutto linguistica, e la fotografia – ora tutta a colori, tranne eccezioni di raffinato snobismo – da una parte le ha fatto da traino e dall’altro ne ha fatto le spese (l’irruzione sempre più massiccia degli effetti elettronici e digitali l’ha insieme penalizzata ed esaltata). Si potrebbe dire, e lo si dice da molti punti di vista, che lo schermo del cinema ha cambiato volto. E si potrebbe dire, inoltre, che nel complesso la fotografia cinematografica si è "ammorbidita".

Uno pensa, per esempio, alla aggressività della fotografia di Marcello Gatti per La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo, che rappresentò la ribellione dei giusti contro l’ingiustizia – e le sovraesposizioni, gli accecanti controluce, il tono acre e rubato dell’attualità ricostruita, la macchina a mano in frenetico movimento si sovrapponevano al racconto della lotta di liberazione con una forza sconvolgente. Poi uno si ricorda delle delicatezze sparse da Blasco Giurato sul tessuto di Nuovo Cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore, film già patetico e dolciastro per conto suo, oppure delle carezzevoli luci che bagnano la Milano di L’aria serena dell’Ovest (1990) di Silvio Soldini, o ancora di quell’esordio di Nanni Moretti che nel 1978 girava per Roma e per Ostia, con la macchina da presa di Giuseppe Pinori, evitando ogni stridore e ciondolandosi mollemente fra stramberie inoffensive, e la fotografia naturalmente lo sorreggeva come meglio poteva.

Si dice che oggi sia il colore a condizionare lo sguardo dei registi e dei direttori della fotografia. In parte, ma solo in parte, è vero. Piuttosto, si assiste a un affievolirsi della sperimentazione, quasi che anche la fotografia si sia adeguata a quel gusto medio prevalente nel pubblico cinematografico, e dilagante in televisione, che esige il gradevole, lo sfarzoso, il suggestivo fine a se stesso, il "patinato". Non mancano, ovviamente, le eccezioni. Vengono, e non è un caso, dalle zone che sono state a lungo depresse o emarginate e che trovano proprio nello scatto di una ribellione alle (antiche e nuove) convenzioni la forza per uscire dall’isolamento. Pensiamo a quella che è stata detta la scuola napoletana, a registi come Mario Martone, Pappi Corsicato, Antonio Capuano, Pasquale Pozzessere.

Non è soltanto una "rivolta" tematica. Quando Martone si affida all’operatore milanese Luca Bigazzi per Morte di un matematico napoletano (1992) e per L’amore molesto (1995) e poi – una volta fatta la mano, si direbbe – al napoletano Pasquale Mari per Teatro di guerra (1997), mostra di essere cosciente che anzitutto occorre mutare la forma del film, il suo involucro cromatico, per renderlo più crudo e incisivo. L’ultimo dei tre film lo afferma con nettezza: i vicoli della città, le case, i luoghi dove gli attori provano lo spettacolo classico da portare a Sarajevo, i teatri, la notte che avvolge spesso l’azione sono illuminati da una luce fredda, non concedono nulla alle piacevolezze tradizionali del folclore partenopeo. Lo stesso avviene con Pozzessere e con la fotografia di Bruno Cascio (Verso sud, 1992; Padre e figlio, 1993). Lo stesso vale per Capuano e per Antonio Baldoni che ha fotografato nel 1996 Pianese Nunzio, 14 anni a maggio. Lo stesso, e più ancora, si deve dire per quello che è forse l’ingegno più vivo del gruppo, il Corsicato di Libera (1993) e, soprattutto, di Buchi neri (1995), il primo fotografato da Roberto Meddi e Raffaele Mertes, il secondo da Italo Petriccione. Questa Napoli scomposta, lunare, inverosimile (e palesemente vera sotto la maschera del grottesco) reca evidentissimo il segno di un rifiuto del luogo comune e di una tendenza sperimentale a tutti i livelli.

Le prime avvisaglie di un mutamento di clima risalgono alla fine degli anni settanta, quando un altro napoletano, Salvatore Piscicelli, getta uno sguardo fermo eppure partecipe sulle brutture del suo paese e ne ricava, nel 1979, Immacolata e Concetta (fotografia di Emilio Bestetti) e, nel 1981, Le occasioni di Rosa, (fotografia di Renato Tafuri). Non c’è alcun compiacimento né alcuna tenerezza, il neorealismo è una remota esperienza alla quale il regista può guardare con l’occhio dello storico. C’è la esattezza, persino crudele in qualche punto, di una constatazione di fatti, ci sono immagini sudicie, impastate di terra, di polvere, di sudore. C’è, appunto, la tensione dello sperimentare. Più di uno, oggi, continua questo discorso. Più di uno volta le spalle al gradevole televisivo.

Per chi fotografa, la sperimentazione prende sempre le mosse dalla tecnica. E con la tecnica sovente si sbizzarrisce. Il colore offre possibilità che al bianco e nero non erano concesse e che, in certi generi, accrescono parecchio il fascino dello spettacolo. Il caso tipico è quello dell’horror, dove si erano imposti Riccardo Freda e Mario Bava prima che si facesse avanti (anche con l’aiuto di Bava, eccellente manipolatore della luce) Dario Argento. Con lui all’inizio collaborò Vittorio Storaro (L’uccello dalle piume di cristallo, 1970), cedendo poi il passo ad altri operatori (Menczer, Di Giacomo, Kuveiller, Albani). Il regista è esigente sino alla mania, intende spremere dalla fotografia tutta la possibile somma di effetti agghiaccianti. Luciano Tovoli è colui che accetta più volentieri il gioco, mettendo a disposizione delle storie (eccessive e incredibili, come il genere richiede) una tavolozza cromatica rutilante, ottenuta con un uso smodato di gelatine di ogni colore: Suspiria (1977) e, più ancora, Tenebre (1982) esasperano la tensione narrativa e creano la giusta atmosfera da incubo ("Carrelli laterali ed equilibrismi acrobatici della macchina da presa – osserva Roberto Pugliese nel "Castoro" dedicato all’autore – perforano lo spazio come si trattasse delle quinte di un palcoscenico: l’assassinio delle due lesbiche, punitivo e contemplatorio, è ripreso da un tetto all’altro, da una finestra all’altra"). Non solo le gelatine colorate, ma anche la sovraesposizione, le deformazioni prospettiche provocate dagli obiettivi, la macchina a mano in movimento frenetico sono sperimentalismo puro.

Per un direttore della fotografia la sperimentazione non è un trastullo ma una necessità. Una maniera di esistere. Non tanto per affermare la propria personalità (accade anche questo, ed è più che legittimo), quanto per inserirsi a pieno titolo nella multiforme pratica del cinema, di cui la fotografia è l’asse portante. Non sempre ne ricevono il giusto riconoscimento, perché gli occhi di tutti sono puntati prevalentemente, per una inveterata deformazione critica, sulla personalità del regista (anche quando il regista non ha personalità) e, in secondo luogo, sulla prestazione degli attori. Se capita, qualche volta capita, si stenta a crederlo. Nel 1961, per un piccolo film di Franco Rossi (Odissea nuda), che pure in altre occasioni s’era rivelato un autore di qualità, l’equanime Filippo Sacchi ebbe a scrivere: "Quello che c’è nel film di bello, di nuovo, di poetico è dell’operatore Alessandro D’Eva: sue queste tinte fiabesche, sue queste trasparenze cristalline, suo questo mondo mitico, lagunare e marino, dove ogni moto prende tempo di danza, e ogni forma è bagnata dalla luce di Eliso".

Un’altra volta, delle rare, era stata quella di Carosello napoletano (1953), spettacolo sontuoso e sottilmente evocativo di Ettore Giannini, che, trasferendo sullo schermo un suo musical andato in scena con grande successo, si era avvalso della ricca fantasia di collaboratori come lo scenografo Mario Chiari, la costumista Maria De Matteis, il grande coreografo Léonide Massine e, soprattutto, come l’operatore Piero Portalupi, reduce da due appaganti esperienze con De Santis e con Visconti, entrambe in bianco e nero (Non c’è pace fra gli ulivi, 1950, e Bellissima, 1951). Il film è una elegante collana di canzoni celebri inserite nella patetica vicenda del cantastorie Salvatore Esposito (un simpatico Paolo Stoppa). Fosse solo questo, sarebbe un normale film-rivista sul modello americano, ma diventa qualcosa di più significativo grazie ad una fotografia funzionale e squisita, in grado di valorizzare i mille colori che si mischiano davanti alla macchina da presa. E tutti se ne accorsero, perché il fulgore della fotografia (e la maestria ritmica della regia) "bucava", come si dice, lo schermo.

Erano gli anni degli esperimenti con il colore. Le pellicole stavano migliorando. Accanto al technicolor, affidabile ma macchinoso da usare, si facevano strada i monopack, una sola pellicola con i tre strati cromatici sovrapposti. In Italia si tentò l’avventura del ferraniacolor, fra tutti i monopack forse il più difficile da maneggiare. Non mancarono i coraggiosi, che corsero il rischio di inondare di luce, data la scarsissima sensibilità della pellicola, il set e i poveri attori. Tonino Delli Colli, che i rischi li andava a cercare, girò Totò a colori nel 1953. Mario Craveri preferì seguire il giornalista Gian Gaspare Napolitano nella foresta amazzonica per un esotico documentario (Magia verde, 1953) che avrebbe aperto la strada a un intero filone, piuttosto interessante, del cinema italiano. E dopo accettò la scommessa di un film di Alberto Lattuada – La spiaggia (1954) – che graffiava le ubbie della borghesia emergente e becera. L’azione si svolgeva in una località di villeggiatura della Liguria. Il mare, il cielo, il sole, la sabbia, la pelle dei bagnanti, le terribili sfumature azzurrine delle ombre: una sfida dopo l’altra, che Craveri affrontò con francescana pazienza, uscendone con onore e risultati stupefacenti (le sequenze sulla spiaggia, la sabbia bianca, la trasparenza dell’acqua marina, i controluce, le mezze tinte rendevano fedelmente quel tono, tra affettuoso e ironico, al quale puntava la satira lattuadiana).

I decenni che ci dividono dalla fine della guerra – ricchi di avventure artistiche, di radicali innovazioni, di tendenze in continua evoluzione – hanno prodotto trasformazioni profonde in tutti i settori della pratica del cinema, a cominciare ovviamente dalla fotografia (le pellicole, gli strumenti, la illuminazione, i processi di sviluppo e stampa, l’introduzione dei sussidi elettronici, ecc.). Tutto, si può dire, è cambiato. Una cosa non è cambiata: il divario che separa l’esibizione tecnica fine a se stessa dall’impiego delle risorse pratiche e della intelligenza umana per ottenere il risultato omogeneo che giustifica la realizzazione di un film. Ogni sperimentazione, la più ardita compresa, ha un valore positivo, altissimo talvolta, se concorre alla creazione dell’opera cinematografica. E l’opera potrà anche avere cento facce – grandi e piccole, lunghe e brevi, documentarie e narrative, scientifiche e sperimentali – e presentarsi con i colori più sgargianti e le seduzioni più sottili, ma, come si dice volgarmente, lascerà il tempo che trova, se non si stringerà intorno al nucleo solido di uno scopo unitario da perseguire. Se le facce corrispondono a un senso, e non nascono soltanto dall'estro e dalla vanità personali, non incapperanno in alcun interdetto. Anzi.

È una regola aurea che vale per la fotografia come per tutte le componenti della macchina del cinema (e, naturalmente, della letteratura, della musica, dell’arte figurativa, del teatro, di tutto ciò che è frutto della creatività umana). Il senso può anche non essere visibile al primo contatto, e può sfuggire a una critica distratta o impreparata, incapace di cogliere il nuovo (quante volte è successo), o può essere il senso della follia (il surrealismo e l’arte astratta insegnano), ma deve esistere. Fino a prova contraria. Fino a che qualcuno non smentisca la regola.

Il cinema italiano galleggia, ora puntando sul patetico ora virando verso il comico. Quando lo fa, ottiene udienze. Commuove talvolta, talaltra diverte e perfino convince quantunque non contenga motivi davvero convincenti. Gira anche il mondo quando gli accade di trovare il soggetto giusto, e poco importa che poi non si solleva da terra più di tanto: la modestia e la gentilezza suppliscono alla mancanza di vigore drammatico. Il mondo applaude egualmente, perché questo cinema divulga un’immagine dell’Italia eterna, che piace a tutti. Come Il postino (1994) di Michael Radford e Massimo Troisi, che narra la fine di Pablo Neruda, spostando l’azione dal villaggio cileno di Isla Negra al Golfo di Napoli. La storia aspra e secca nel bel romanzo di Antonio Skàrmeta (Il postino di Neruda), si illanguidisce per aderire alla malinconia che si legge sul volto del postino Troisi e per indurre Franco Di Giacomo a spalmare colori caldi sulla fotografia del film, non più comico ma solo patetico, muore al termine delle riprese. I successi che Il postino raccoglie dunque sono un omaggio al simpatico attore scomparso (c’é anche l’impeccabile Philippe Noiret nei panni di Neruda, ma tutti gli occhi sono rivolti alla disarmata goffaggine di Troisi).

Un altro successo di attore comico (successo planetario: 300 miliardi di incasso, una pioggia di Oscar) é quello di Roberto Benigni, l’interprete irresistibile de La vita é bella (1997). Interprete e, come Troisi, anche regista. Tonino Delli Colli lo pilota disinvoltamente da una assolata città toscana alle tetre camerate di un campo di concentramento nazista, dove finiscono il protagonista Guido Orefice, la moglie Dora e il loro bambino Giosué. Il film racconta, nello stile spampanato e saltellante del Benigni, una fiaba gentile. Rappresenta una novità curiosa, in grado di suggestionare, e commuovere, i pubblici di mezzo mondo. Curiosa perché ognuno degli autori - il regista, l’operatore, l’attore - s’ingegna al meglio delle sue capacità, quasi fosse solo sulla scena del film. Siamo di fronte a un raro caso, si potrebbe dire, di schizofrenia, in cui si dimostra -il cinema italiano in momenti difficili è pronto ad ogni acrobazia- che la schizofrenia può produrre effetti positivi. Come camminare sull’orlo di un precipizio e riuscire a non caderci dentro: il folletto Benigni é la dimostrazione vivente del miracolo. La vita è bella non rappresenta, come si potrebbe temere, una serie di esibizioni tecniche fini a se stesse. Semmai é una nuova maniera di intendere e praticare l’unità di intenti. Una bizzarria, certo irripetibile. Quando la fusione non é possibile, si ricorre alle risorse dell’individualismo, collaudata via di fuga del genio italiano.

Il futuro si presenta confuso, si nuota in un mare di effetti digitali. Siamo giunti, come si dice in gergo tecnico-militare, al "point of no return". Da ogni parte premono ingiunzioni, invenzioni e allettamenti, la tecnica cinematografica (ed elettronica) si evolve con implacabile rapidità. Che fare? Arroccarsi nella fortezza della chimica e dell’ottica o accettare il rischio del nuovo? La fotografia si appresta ad affrontare la battaglia più dura.