Gli occhi del cinema
Giovanni Grazzini

(2001)

Fiat lux, disse e, s’illuminò l’immenso set del Creato. Il Maestro si rallegrò e si compiacque della propria sapienza. Prese per un braccio un giovanotto che passava di lì con gli occhi sbarrati, gli infuse l’arte della visione e vedo - gli disse - che sei ghiotto di immagini. Bene ti nomino direttore della fotografia.

Gli mise al fianco un regista, e ai due chiese di sfidarlo a reinventare il mondo. La coppia si pose al lavoro, col ragazzo consapevole subito che l’incarico più difficile era toccato a lui, perché un regista senza direttore della fotografia non dava alcun frutto, e invece un direttore della fotografia poteva estrarre una forma dal nulla col solo accendere una lampadina.

La nuova arca dell’alleanza si mise in viaggio, con l’intesa che il porto da raggiungere sarebbe stato il ricomporre in quella che sarebbe stata chiamata unità figurativa i diversi luoghi e i tempi delle riprese. Fra i due i rapporti non furono sempre eccellenti, perché accadde che il regista pretendesse troppo o non sapesse quello che voleva. Ma valendosi di filtri, lampade, veli e bandiere, il direttore riuscì spesso a dare dimensione visiva al clima in cui la vicenda narrativa doveva svolgersi o alla struttura interna delle immagini.

Ottenuta una pellicola variamente sensibile alla luce, naturale o artificiale, il direttore ne governò le virtù con saggezza figurativa, vuoi facendo appello alla propria sensibilità, vuoi trovando spunti nella natura e nella pittura.

Gli studiosi cominciarono a parlare di valori plastici, di elementi formali e stilistici, e si cominciarono a scrivere libri e repertori sui direttori della fotografia, che ne vantano i processi creativi e l’evolversi di un mestiere cresciuto a professione da quando le inquadrature, le lenti, i movimenti della camera e delle luci, la messinscena, il tipo della macchina da presa, lo sviluppo e la stampa delle pellicole non furono più di pertinenza del solo operatore, ma appartennero ad altri protagonisti del connubio fra arte e tecnica. Non soltanto: si perfezionò la messa a fuoco di tutti i piani visivi e sonori, si ricorse allo zoom per avvicinare il soggetto, s’imparò ad andare diagonalmente verso l’attore col carrello per dare all’immagine una tridimensionalità che ha qualcosa di musicale, si perfezionarono i contatti con il fonico, senza i quali la fotografia sarebbe spesso mutilata. Si capì che tutto comincia con lo studio del copione, col cogliervi armonie e contrappunti da tradurre in ombre e luci.

Il cinema divenne così una maniera di scrivere, e gli occhi del direttore della fotografia, il suo istinto, la sua abilità nel dosaggio delle luci, guidarono il nostro sguardo ad apprezzare l’architettura dello spazio, la composizione delle immagini, fossero quelle di un film realista, aspro e crudo, quelle oniriche di un’opera fantastica o quelle, già antiche, della fotodinamica e del dinamismo plastico. Cogliere il senso della vita e il ritmo del tempo, fotografare l’idea e l’uomo dandoci un’emozione che può toccarci nel profondo è il traguardo cui tende ogni bravo direttore della fotografia carezzando sensualmente con l’obiettivo le forme e le idee da esse sottese. Più che il piacere di riprodurre la realtà il nostro direttore vuole trasmetterci una sorta di godimento estetico nel quale si sposano i colori, la purezza, l’intensità espressiva delle immagini. il racconto condotto con le ombre e le luci della fotografia comunica l’energia del vivere e il percorso dei sentimenti, lo spirito di un’epoca e di un costume. Ogni volta che metti le luci è come fare l’amore" dice Marcello Gatti.

E quali stratagemmi ha inventato il direttore di buona razza perché la luce sia inerente allo spirito del copione: la fa piovere dall’alto, la usa riverberata, la fa venire dal basso per incattivire il personaggio, gira in sovra o sottoesposizione, controluce, la diffonde per ammorbidire i contorni e attenuare i colori, ne affida l’effusione all’attore. L’illuminotecnica ha una parte decisiva, ma è nella libertà e nel talento del direttore che la fotografia esprime i suoi titoli di nobiltà, il suo diritto a far parte delle arti figurative.

Fin qui, per quasi un secolo, la missione, la vocazione, l’ambizione del direttore che dipingendo con la luce (così dicevano gli elettricisti teatrali) ha cavato dal buio la pregnanza interiore degli oggetti e dei gesti, il disordine della vita, le sue dolcezze e i suoi chiaroscuri psicologici, ha voluto leggere nell’opera cinematografica l’essenza dei sentimenti, la natura, il rapporto tra spazio e tempo, il vero ma anche il fantastico.

Il progresso ha oggi portato a una svolta.

A quella tradizionale, che ci ha dato tanti capolavori, sta subentrando la tecnologia digitale, frutto dell’elettronica, e gran parte del bagaglio del direttore della fotografia muta. Tutta la fabbrica e il consumo del film cambia tragitto. I meno giovani fra i direttori, ancora attivi, saranno ormai gli ultimi a serbare memoria diretta di quando, da ragazzi, esponevano al sole le pellicole perché le stampasse. Girato con le microcamere digitali, all’occorrenza riversato in pellicola per le sale, proiettato e distribuito in digitale, il film dei primi anni Duemila, arrivato dal satellite, si sottrae, fra l’altro, al rito della visione dei giornalieri e lascia il posto al nastro magnetico. Può essere doloroso - dice Franco Di Giacomo - immaginare di girare un film senza il rassicurante ronzio della macchina da presa, ma vuol dire che ci abitueremo al discreto frusciare del nastro magnetico che si riavvolge. Mi sembra uno sforzo accettabile.

In questa marcia verso cambiamenti epocali, il ruolo decisivo resta però quello di chi mette le luci. La pellicola ha, secondo molti, il vantaggio di darci più informazioni del digitale, ma non è alla tecnica, alla sequenza dei numeri, che dobbiamo i valori espressivi dei quali il cinema potrà vantarsi. Rotunno dice che acqua e vino possono essere miscelati, come la chimica e il digitale. Importa che l’ibridazione non trasgredisca il codice del cinema, che i nuovi strumenti siano un mezzo per trasmettere i valori custoditi nelle immagini, e non abbiano il fine di stupire un pubblico regredito all’infanzia.

Il digitale - aggiunge il giovane Daniele Nannuzzi - serve a scatenare la nostra fantasia, ma è solo una "chance", come tutte le altre, per darci effetti speciali altrimenti impossibili dal punto di vista produttivo. Il linguaggio deve restare quello del cinema. Se si parla tanto di digitale è soltanto perché esso non comporta il costo della pellicola e c’è meno personale. "E’ avvilente" dice Nannuzzi, ma nella postproduzione è utile se col telecinema ci trasferisce dal negativo al digitale. Non si tratta più di cinema se non c’è il fascio di luce che attraversa la sala e unisce la pellicola allo schermo. Il negativo - insiste Nannuzzi - è come un mobile antico lucidato a mano, il digitale è lo stesso mobile poliesterizzato a spruzzo.

Idealmente gli fa eco Tonino Delli Colli:I nuovi sistemi di ripresa digitale non mi appartengono, o meglio non ho il desiderio di acquisire queste nuove tecniche anche se tutto cambia e l’evoluzione renderà ancora più istantanea la realizzazione del cinema.

Ottimista è invece Vittorio Storaro: Sono certo che tra non molto saremo in grado di registrare le nostre immagini in una vera Alta definizione, a lunga conservazione nel tempo e di ottima qualità tecnologica. Immagino che in quel momento perderemo forse la nostra Innocenza e forse perderemo parte del Mistero della rivelazione dell’immagine, ma certamente aquisteremo la coscienza della sua formazione e della sua conservazione. Tutto ciò fa parte della parola ‘Evoluzione’. Non appena l’uomo riuscirà a districare l’equazione tempo-qualità-prezzo, penso che sarà in grado di fissare digitalmente le immagini direttamente in seno alla parola Energia.

E’ vero comunque che col digitale, in sede di restauro, si possono ricostruire parti mancanti o cancellare graffi e rotture, clonare altri fotogrammi, tramutare la vecchia colonna sonora, fare intervenire sullo schermo personaggi presi da altri film. In prospettiva il primo problema è comunque quello della conservazione: il restauro - ricorda Giuseppe Rotunno - è possibile se il materiale è stato conservato bene.

Gli interrogativi che si pongono ai direttori della fotografia della nuova generazione sono, insomma, molti, e riassumibili fra l’altro nella domanda se si debba andare verso pellicole per camere miniaturizzate o verso video digitali. La risposta di chi non è addetto ai lavori ma ama il cinema è che se davvero siamo arrivati alla perfezione dell’occhio umano, fateci vedere e non solo guardare, nel film, oltre i virtuosismi tecnici, i valori estetici inscritti nel fotogramma.

Ne saremo nutriti e premiati.>