L’immagine del Cinema alla luce dell’esperienza
Giuseppe Rotunno

(Intervista a cura di Alessandro Gatti)

Sono arrivato alla direzione della fotografia del film Le notti bianche di Luchino Visconti dopo 17 anni di esperienze, formazione, evoluzione nel campo della fotografia statica e della fotografia in movimento: la prima cominciò in camera oscura nel laboratorio fotografico sito all’interno di Cinecittà diretto da Arturo Bragaglia, del quale, la generosità e la stima che aveva per la mia passione verso la sperimentazione della fotografia: dallo scatto allo sviluppo e stampa, dal ritocco delle copie al restauro delle lastre, lo portò a consigliarmi e a sostenere il mio passaggio dal laboratorio fotografico all’adiacente reparto operatori nel quale feci la mia trafila di apprendimento in tutti i ruoli, da quello di aiuto operatore, a quello di operatore alla macchina. In seguito sotto le armi cominciai la mia carriera di cineoperatore girando documentari, quest’ultimo ruolo continuò durante tutta la vita militare, alla quale malgrado la giovane età, fui costretto dalla guerra in corso. In qualità di capo di un nucleo di cinematografisti, mi venne affidato insieme alle attrezzature fotocinematografiche e due mezzi per il trasporto delle stesse, il compito d’inviato al fronte per fare fotografie dallo scatto alla stampa delle copie e riprese cinematografiche da inviare al comando generale dello Stato Maggiore del Regio Esercito, come documentazione e reportage di guerra.

Dopo l’8 settembre del ‘43, fui catturato in Grecia e deportato in Germania in campi di concentramento del Westfalen, prima in una cittadina, Hattingen, e poi in una seconda, Witten, sul fiume Ruhr dove fui liberato l’11 aprile del 1945 dai soldati di una compagnia militare Usa. Tornato in Italia, in mezzo a mille difficoltà, ripresi il mio lavoro nel cinema, ricominciando da aiuto operatore per risalire in breve tempo al ruolo di operatore alla macchina, alternato a quello di direttore della fotografia per documentari, attualità, avvenimenti sportivi e seconda unità di film a lungometraggio.

In questi ultimi anni presi coscienza del sostanziale cambiamento della qualità e del modo di raccontare del nostro cinema, divenuto adulto, indipendente e libero di esprimersi, dimenticando il cinema di regime imposto per lunghi anni, definito cinema dei Telefoni bianchi, per divenire cinema di livello culturale più impegnato che divenne famoso in tutto il mondo come cinema Neorealista, ancora oggi tanto apprezzato.

Un ruolo importantissimo nel passaggio evolutivo dal cinema di regime a quello Neorealista lo ebbero i direttori della fotografia italiani. Si facevano film con vecchie cineprese e vecchi obbiettivi, a volte non compatibili qualitativamente fra di loro, con spezzoni di pellicole di tutte le provenienze fabbricative, acquistate alla borsa nera del mercato di Porta Portese (a Roma), di provenienza dubbia anche scadute o velate, fisicamente ridotte male.

Malgrado tutto, i nostri direttori della fotografia seppero trasformare i difetti in qualità, inventando uno stile fotografico di efficace bellezza, funzionale per i racconti dei film che gli venivano affidati tanto da cancellare ogni carenza tecnica. Io mi sono formato cinematograficamente, durante gli anni di pieno sviluppo del Neorealismo che vanno dal 1945 al 1955, anno del mio debutto in qualità di direttore della fotografia unico responsabile di un film importante. Le possibilità tecniche per il nostro cinema erano molto migliorate e il mio primo film lo potei girare a colori e in Cinemascope - sistema di ripresa panoramico appartenente alle nuove tecnologie-, da allora continuai la sperimentazione con ogni mezzo di ripresa ritenuto moderno, senza mai dimenticare le esigenze delle storie.

La sperimentazione di nuove tecnologie continua ancora oggi e finirà solo quando finirà il cinema.

Scegli una scena che ritieni importante tra i tuoi film, perché ha segnato un traguardo nella tua professionalità.Descrivi il percorso e le emozioni per realizzarla anche dal punto di vista tecnico.

L’uso della fotografia nel film Le notti bianche di Luchino Visconti, tratto da un romanzo di Fèdor Dostoevskij, fu un passo importante della mia evoluzione nel come raccontare storie con la luce.

La fotografia di questo film (sempre in bilico tra il vero e il falso) tra realtà e fantasia, tra il mondo espressivo cinematografico e il mondo espressivo teatrale, ha accompagnato scena per scena la regia: Visconti nella sua straordinaria carriera artistica, ha alternato grandi regie teatrali a grandi regie cinematografiche, ha dato al teatro il potenziale espressivo del cinema e al cinema il potenziale espressivo del teatro, anche il tema visivo del racconto de Le notti bianche, imposto da Visconti, comprendeva i due modi di rappresentare una storia ai quali nella sua vita ha profuso lavoro, talento, professionalità, e tutta la sua sensibilità.

Quale scena di questo film scegliere come più significativa? Ogni atmosfera di luce del film, rafforza emotivamente l’altra, ma forse la più esplicita è quella nella quale Mario aiuta Natalia a scrivere una lettera all’inquilino di casa della nonna.

I due siedono a un tavolino di un bar e durante lo svolgimento della scena la nebbia lentamente fa la sua apparizione e quasi inavvertitamente aumenta d’intensità nei momenti voluti.

La luce graduata da Dimmer appositamente costruiti e comandata da una tastiera, veniva proiettata su veli enormi appesi alle capriate del teatro e lunghi fino a terra, che tagliavano la scenografia a fette, lasciando i soli spazi necessari ai passaggi dei personaggi che seguivano itinerari precedentemente stabiliti, per farli apparire e scomparire nella nebbia alle distanze volute.

Questa stessa scena come la rifaresti oggi con le possibilità offerte dalle nuove tecnologie? Verrebbe meglio?

La rifarei esattamente come allora poiché quando si ottengono i risultati voluti, non c’è un meglio da ottenere. Anche a nome di Visconti posso dichiarare che la fotografia de Le notti bianche, risulta ancora valida, efficace e nessuna nuova tecnologia ci potrebbe fare ottenere di meglio.

Consideri l’avvento delle tecniche digitali una forzatura al "codice" del cinema?

Credo proprio di si, quando le nuove tecnologie possono facilitare e rendere migliore il nostro lavoro, vanno usate come qualsiasi altro mezzo che ha lo stesso scopo, ma sarebbe controproducente pensare che le nuove tecnologie da sole possono fare film di qualità. E’ la passione e la consapevolezza di quello che il mezzo cinema può dare, unito al talento e alla professionalità che fanno realizzare film di qualità ed è bene non dimenticarlo mai. Vedi Ben Hur di William Wyler, 1959

Come giudichi gli esperimenti degli ultimi anni di film girati parzialmente - Buena vista social club di Wim Wenders, Il gladiatore di Ridley Scott - o totalmente - Dancer in the dark di Lars Von Trier - con telecamere digitali poi ristampate in pellicola per le sale?

Non ho visto il film di Wim Wenders, Dancer in the dark di Lars Von Trier non mi risulta sia stato girato totalmente con tecniche elettroniche, parte del film è girato con mezzi cinematografici tradizionali con qualche inserimento elettronico per ottenere inquadrature o scene ritenute più adatte a questo mezzo. Von Trier ha sfruttato con molta abilità le nuove tecnologie e le ha inserite bene nel film. Ho l’impressione che finiti i vantaggi pubblicitari abbia qualche ripensamento su quelli ottenuti con l’elettronica, a meno che la sua passione di operare con la cinepresa non prevalga su quella di fare la regia.

Ridley Scott ha inserito nel suo film Il gladiatore, con grande abilità la tecnologia elettronica per realizzare effetti speciali.

E’ un film il suo nel quale l’odore dell’artificiale è funzionale. Noi in Italia siamo abituati a vedere queste rappresentazioni sacre dell’antica Roma, specialmente nel periodo di Pasqua, ricostruite con personaggi dalle barbe finte appiccicate, sciabole, scudi, corazze e fruste false. Queste finzioni nel film di Ridley Scott ci sono tutte, fatte straordinariamente bene, e soprattutto efficaci. E’ la regia che ha dominato l’artificio, usandolo per creare un film che ha rilevanza cinematografica notevole.

Nel novembre del 2000 è stato trasmesso via satellite, e non proiettato, in una sala cinematografica americana, il film Bounds. Come giudichi l’avvenimento?

Questo è un avvenimento importante, però stiamo parlando della commercialità del mezzo. Presentare un film in contemporanea in tutto il mondo (pur non conoscendolo nei particolari) è un fatto commerciale importante per un produttore che investe tanto denaro, rientrare in un giorno degli incassi che potrebbe avere in anni è il massimo delle aspettative. Per noi direttori di fotografia cambia poco, quello che ci interessa è ciò che arriva al pubblico dei valori intellettuali inseriti nel lavoro che abbiamo realizzato. Comunque ad oggi conviene sempre una partenza da pellicola per ottenere una migliore qualità e una migliore conservazione.

Nella tua carriera hai mai girato un film con tecniche da te considerate innovative?

Io credo che ognuno di noi pensa o crede di usare tecniche innovative. Le tecniche sono la base indispensabile per esprimersi, per cui anche i direttori della fotografia, usano tutte le regole ritenute efficaci, da quando è nato, il cinema è in continua evoluzione e continuerà ad esserlo. E’ la validità delle innovazioni che conta. Ci sono film come Senso o Il Gattopardo, che Visconti ha aggiornato ai suoi contemporanei che sono ancora oggi validi.

Il supporto digitale (dal realismo a volte esasperato) non rischia di rendere meno verosimile la storia, il gesto della recitazione, la luce stessa?

Queste qualità che appartengono al racconto cinematografico, non dipendono dal mezzo di ripresa, dipendono semmai dalla luce, cioè dall’illuminazione, il mezzo di ripresa è secondario. Una telecamera non rende più realistica la scena rispetto ad una cinepresa, perché sono entrambe abbastanza obiettive per riprodurre quello che inquadrano, la verosimiglianza si ottiene con la qualità dei soggetti da inquadrare e da come vengono illuminati nel momento delle riprese.

In che direzione dovrebbero continuare le ricerche di chi progetta per la tecnica del cinema. Verso strumenti a pellicola (camere miniaturizzate, chassis più leggeri) o verso strumenti video digitali?

Questa domanda ha già la risposta in sé, dobbiamo usare quello che secondo noi rende di più per il cinema. Se c’è un materiale che migliora il nostro operato viene naturalmente scelto, io ritengo che la pellicola ha ancora un grande vantaggio sul mezzo elettronico, permette di raccogliere più informazioni più qualità. Come viene definito, il cinema è carnale, la televisione è robotica. La cinematografia non è sostituibile è come il vino con l’acqua, si bevono tutti e due ma sono completamente diversi, uno non può sostituire l’altro. Anche se a volte possono essere miscelati tra di loro. Esistono da molto tempo cineprese miniaturizzate da usare quando si ritiene necessario.

Cosa pensi della conservazione e del restauro del cinema italiano. Il termine restauro che si usa in Italia e il termine restauro che si usa negli Stati Uniti hanno la stessa valenza?

Il termine restauro in Italia ha gli stessi valori che negli Stati Uniti; probabilmente negli Usa, danno più importanza ai risultati tecnici. La ricostruzione fisica dei materiali sensibili che contengono le immagini originali, non deve prevalere sui valori fotografici che vanno recuperati anche con alcuni difetti altrettanto originali, nel rispetto e il più vicino possibile alle intenzioni degli autori. Il film deve essere ripristinato e rappresentato nella sua totale dimensione (alcuni difetti sono nel suo DNA) non possiamo toglierli senza perdere qualcosa della sua originalità e quindi vanno accettati.

Esistono dei film che si potrebbero restaurare e sono però in un cono d’ombra, rispetto ad altri più acclamati?

Certamente accadono delle discriminazioni, nelle scelte dei film: per restaurarli tutti occorrono ingenti capitali che non ci sono, è giocoforza scegliere, e le scelte come sempre, si debbono fare anche se comportano esclusioni. Bisognerebbe decidere secondo necessità suggerite dallo stato fisico dei materiali sensibili e dai valori contenuti dalle opere cinematografiche.

Hai una tua personale classifica dei film che vorresti vedere restaurati al più presto?

Io ho una personale classifica di film da restaurare ma l’urgenza di intervenire va data in funzione delle condizioni fisiche nelle quali si trovano i materiali sensibili.

Poi ci sono film a cui sono più affezionato, i miei occhi hanno avuto un’educazione attraverso certi film, e meno attraverso certi altri, è evidente che sono portato a scegliere anch’io. Non si possono dimenticare i nostri grandi autori cinematografici come: Fellini, Visconti, Rossellini, Antonioni, De Sica, Soldati, Monicelli, Pietrangeli, Bertolucci, Germi, Scola, Risi, Pasolini ect. è difficile elencarli tutti e gli esclusi non devono essere abbandonati.

Se tutti i film si girassero con tecniche digitali, il problema della conservazione e del restauro che si presenta come ospite indesiderato dopo pochi anni sulla pellicola sarebbe superato, cosa ne pensi?

Almeno per ora le tecniche digitali non danno vantaggi per la conservazione delle immagini, anzi sono più fragili, hanno un nemico invisibile che sono i campi magnetici che possono intervenire negativamente in qualsiasi momento in qualsiasi luogo. L’elettronica può essere uno dei mezzi di conservazione, soprattutto per ragioni di spazio, ma come Steven Spielberg conferma "Finché esisterà un solo laboratorio di sviluppo e stampa girerò i miei film su pellicola", Le pellicole moderne sono molto più resistenti all’usura e con le dovute precauzioni garantiscono una lunga conservazione calcolata in 100 anni.

La cinematografia digitale è "un treno da non perdere" o solo un mezzo da abbinare alla cinematografia classica, una chance come è a volte l’uso della Steadicam?

Non dobbiamo perdere nessun treno che appare nel cinema. Lo Steadicam aggiunge qualcosa quando serve, però io non ho mai partecipato ad un film girato prima che fosse inventato questo mezzo, dove avessi trovato difficoltà ad esprimermi, o ad aiutare il regista ad esprimersi. Il mezzo tecnico ci aiuta, ci facilita, forse ci mette nelle condizioni di accellerare l’esecuzione delle nostre scelte, però il cinema è validissimo anche senza lo Steadicam, sono le storie che contano, la regia, la recitazione, le scenografie, la luce; tutte materie che non sono contenute nello Steadicam, né nell’elettronica, sono elementi indipendenti dai mezzi tecnici e gli unici indispensabili per realizzare un film.

Gli esperti ritengono che un piccolo miglioramento del supporto della pellicola equivale ad un passo da gigante effettuato con la tecnica digitale.

Certamente, se ci riferiamo alla qualità cinematografica come noi la intendiamo. La pellicola ha raggiunto la sensibilità e la visione qualitativa dell’occhio umano, la luce si usa nel cinema per raccontare storie così come le desideriamo noi, per adattare ciò che abbiamo davanti ai nostri obiettivi alle esigenze di qualità selezionata per i nostri racconti, altrimenti si può girare tranquillamente senza luci supplementari.

In Italia si va di più al cinema e le multisale aumentano. Spesso la multisala diventa una agorà dove i giovani scelgono di andare come pretesto in nome della convivialità, preferendo in prevalenza prodotti nordamericani o film natalizi. Si potrebbero ipotizzare delle multisale-d’essai, dove il cinema italiano venga riproposto -come avviene anche in Francia- anche molti mesi dopo la sua uscita. Una sorta di zona protetta per un prodotto quello italiano spesso di alta qualità. Che ne pensi? Cosa può fare una associazione come l’ A.I.C.?

Penso che dobbiamo proteggere i nostri valori cinematografici del passato e del presente, limitandoci però alla diffusione e alla conservazione delle opere cinematografiche, altrimenti si corre il rischio di porre limiti alla spinta culturale necessaria agli autori per realizzare film di qualità in grado di competere sul mercato internazionale; il solo che possa rendere una cinematografia indipendente finanziariamente: il pubblico va conquistato con la qualità. Forse una programmazione a prezzi più bassi potrebbe prolungare la vita di alcuni film e procurarla a molti altri. Rinunciare a realizzare film con mezzi tecnici con i quali il cinema è nato e si può esprimere completamente nella sua dimensione su grandi schermi per avvolgere il pubblico con le sue immagini dilatate e lo stacca dal suo quotidiano, rendendolo partecipe delle storie che il film propone.

E’ proprio il fine dell’arte strappare lo spirito agli automatismi della vita quotidiana, alla limitazione del campo del pensiero, all’assopimento che ne risulta.

"La proiezione luminosa, adombrando il mondo circostante e rivelando l’immagine sola, precipita lo spirito in un risveglio improvviso" (Jean Dubuffet).

Le giovani generazioni dei direttori della fotografia seguono a volte nuovi stili e linguaggi dovuti anche a percorsi professionali collaterali come i corti, i videoclip, la pubblicità. Ritengono perciò più naturale l’approccio al nuovo. Cosa ne pensano coloro che il cinema lo fotografano da molto più tempo e considerano i nuovi strumenti solo un mezzo e non un fine?

Io considero sempre gli strumenti del nostro mestiere solo un mezzo e non un fine, non potrebbe essere altrimenti. Se si gira un Video-clip bisogna adeguarsi a quel genere di linguaggio, per la pubblicità è un’altra cosa, il nostro sforzo sarà di concorrere al successo commerciale del prodotto. Questo vale anche per i film, ogni storia che ci viene affidata, deve raggiungere il suo scopo, deve arrivare nel modo più immediato al pubblico, il nostro lavoro deve aprire la strada di accesso al racconto con la massima efficacia possibile, senza distrarlo con fronzoli o effetti fine a se stessi, che possono diventare ostacoli. La qualità fotografica viene determinata dalla posizione e dalla direzionalità della luce e non dalla quantità, che non può essere nè più nè meno di quanto è essenziale.

Perché hai cominciato a fare cinema, è merito di un film, di una idea del cinema, di una persona per te importante?

Io sono entrato nel cinema per caso, per necessità di lavoro, anche se fin da ragazzo ero affascinato dalle fotografie esposte nelle vetrine di un negozio chiamato ‘Foto arte Carnevali’, situato vicino alla mia abitazione.

La dilatazione delle immagini, i ritratti imbelliti dal ritocco, i panorami, imposti alla visione dalle inquadrature, attraevano la mia attenzione ogni volta che ci passavo davanti. Il cinema mi si presentò come una opportunità di lavoro.

Morto mio padre, come in tutte le buone famiglie italiane, quando viene a mancare il genitore, i figli devono guadagnarsi da vivere.

Il mestiere di direttore della fotografia con l’avvento delle nuove tecnologie diventa in questi ultimi anni più immediato; il rito della visione dei giornalieri in sala di proiezione ha lasciato il posto spesso alle decisioni immediate dei registi, tramite il nastro magnetico, e alla realizzazione finale in montaggio Avid. Lo ritieni una conquista o un passo indietro?

Non ritengo tutto ciò una grande conquista, nè però lo considero un discapito per la mia professione, continuo cioè a vedere il cinema come lo conosco, come lo amo e come penso che sia. Le immagini di un film prendono forma nella nostra mente dalla prima lettura del copione, o dal racconto che ne fa il regista, cominciano a materializzarsi durante la fase di ricostruzione ambientale dal vero o in scenografia, se ne stabiliscono i valori e si perfezionano durante le riprese. Quando arriva la fase di montaggio, per la fotografia i giochi sono fatti.

La visione su grande schermo dei giornalieri permette di rivelare difetti che il piccolo schermo minimizza o nasconde del tutto falsando la valutazione dei risultati. Se questo particolare si ritiene importante si ha la risposta giusta.

Per cui se gli altri ne fanno altre cose, posso dire meglio o peggio per loro, dipende dai risultati che riescono ad ottenere. Il cinema merita l’attenzione dovuta perché è un mezzo per trasmettere sentimenti, ancora unico.

Mario Bava, prima direttore della fotografia poi regista e alchimista degli effetti speciali riteneva il cinema un qualcosa di molto artigianale, che iniziava nelle idee, nella testa e finiva nelle mani, e nella realizzazione anche povera ma di grande effetto. Per te si dovrebbe tornare alle idee che ispirano chi deve illuminare, alle buone sceneggiature dove le parole sono i veri effetti speciali?

Io credo che Mario Bava avesse molte ragioni, il cinema ha anche una componente artigianale. Sicuramente si deve tornare alle buone sceneggiature, fondamentali per un racconto cinematografico, altrimenti sarebbe come leggere un libro con i dialoghi scadenti. Se a tutto ciò si aggiunge una fotografia funzionale che apra ampi varchi per trasmettere i valori, esteriori e interiori che contengono le immagini, il risultato sarà certamente più efficace.