Un modo di vedere il Cinema
Luciano Tovoli

(Intervista tratta dal volume Gli occhi del cinema - Edizioni Aic 2001)

Scegli una scena che ritieni importante tra i tuoi film, perché ha segnato un traguardo nella tua professionalità. Nel tuo caso non si può non citare il piano-sequenza di Professione reporter di Michelangelo Antonioni. Descrivi il percorso e le emozioni per realizzarla anche dal punto di vista tecnico.

Tutto il film Professione Reporter è costruito attorno a quel famoso piano sequenza ideato e realizzato grazie al talento ed alla tenacia di Antonioni. In quello stesso anno, un magico per me 1974, partecipai, creativamente credo, a due film diversissimi, a due esaltanti ed indimenticabili esperienze cinematografiche: Pane e cioccolata, il capolavoro di quel grande autore che è Franco Brusati e Professione Reporter di Michelangelo Antonioni. Attorno a questi due film, a questi due diversissimi modi di pensare cinema, pur non dimenticando gli altrettanto fondamentali per me Banditi ad Orgosolo di Vittorio De Seta, Suspiria di Dario Argento e Il deserto dei tartari di Valerio Zurlini, credo di avere impostato il mio modo di essere operatore.

Questa stessa scena come la rifaresti oggi, con la possibilità che danno le nuove tecnologie? Verrebbe meglio?

Credo che il concetto di miglioramento a posteriori sia un elementare non-senso. Equivarrebbe in ogni caso allo sconsiderato tentativo di colorare i film in bianco e nero. Inoltre ci sarebbe poco da migliorare. Per la prima volta fu infatti usato, in 35 mm, il sistema Wescam. Fu usato per la prima volta in Professione Reporter, dal suo inventore Ron Goodman con cui io sto operando oggi, aprile 2001, nel mio nuovo film ad Hollywood, diretto da Barbet Schroeder! La stessa visione dell’inquadratura attraverso un monitor distante dalla macchina da presa, allora una novità assoluta, è adoperata oggi praticamente in ogni film! La tecnica che rese possibile quella sequenza di Professione Reporter era quindi proiettata nel futuro.

Consideri l’avvento delle tecniche digitali una forzatura al "codice" del cinema?

I codici non hanno resistito l’usura del tempo, anche quelli estetici. Chi si ricorda della querelle tra Umberto Barbaro, studioso di cinema che si ispirava al materialismo storico e Luigi Chiarini di ispirazione idealista. I loro nomi significano ancora qualcosa solo per pochi intimi, purtroppo.

Attenzione poi perché proprio alle scene di massa di Cabiria del nostro Pastrone, a quei primi effetti speciali di matt-painting a quella grandiosità circense certamente non da cinema d’autore (solo per dire che il cinema può essere tutto!) si è apertamente ispirato uno dei grandi padri del cinema, e non soltanto Hollywoodiano, David W. Griffith. E non era forse uno straordinario effetto speciale quello che George Méliès impiegava dipingendo le sue scenografie in vari toni di grigio, per dargli rilievo, dato che la pellicola di allora non era sensibile a tutte le lunghezze d’onda dello spettro luminoso?

Come giudichi gli esperimenti degli ultimi anni di film girati parzialmente - Buena vista social club di Wim Wenders, Il gladiatore di Ridley Scott - o totalmente - Dancer in the dark di Lars Von Trier - con telecamere digitali poi ristampate in pellicola per le sale?

Molto interessanti anche se provocatoriamente estremi Buena Vista Social Club e Dancer in the dark, Il gladiatore molto meno pur considerando Ridley Scott un grandissimo illustratore, che ho sempre ammirato.

Nel novembre del 2000 è stato trasmesso via satellite, e non proiettato, in una sala cinematografica americana, il film Bounds. Come giudichi l’avvenimento?

Peccato non esserci stato!

Nella tua carriera hai mai girato un film con tecniche da te considerate innovative?

Ne Il mistero di Oberwald era totalmente innovativa l’idea di Antonioni di tentare di intervenire cromaticamente in un settore dell’inquadratura senza per questo trasformare tutta l’inquadratura. L’idea che il colore potesse essere non solo superficie e cornice; ma anche profondità era la chiave del problema e credo che cercammo di affrontarla con la consapevolezza che stavamo facendo un primo esperimento, probabilmente imperfetto, e che le cose sarebbero cambiate molto nel futuro cosa che sta in questi anni accadendo con il digitale. Ma io credo che per chi voglia accingersi a tracciare una storia dell’immagine elettronica e digitale quel primo esperimento possa servire da solida base a molti ragionamenti ed a mettere nella giusta prospettiva, non solo tecnologica, quello che sta accadendo oggi e che accadrà domani nel campo del racconto per immagini in movimento.

In che direzione dovrebbero continuare le ricerche di chi progetta per la tecnica del cinema. Verso strumenti a pellicola (camere miniaturizzate, chassis più leggeri) o verso strumenti video digitali?

La miniaturizzazione degli strumenti del raccontare cinematografico non corrisponde secondo me obbligatoriamente ad un progredire. La splendida e pesantissima ed ingombrante macchina Technicolor che abbiamo in AIC e che rese possibile film indimenticabili come Senso rappresenta per me, come lo fu per Visconti ed Aldò come certamente per Rotunno, il mezzo ideale per consegnare agli spettatori (ai quali non interessano certo né l’ingombro né la ridotta mobilità né la pesantezza di una macchina da presa di quel tipo quanto piuttosto l’emozione che attraverso quel mezzo gli autori sono riusciti a trasmettere) ed al tempo (in quanto le tre matrici bianco e nero la conservazione è praticamente illimitata). Per consegnare allo spettatore ed al tempo quelle straordinarie immagini. Io sogno un futuro in cui, (non parlo naturalmente di tecnologia applicata in campi di ricerca per i quali ho solo interesse ma non dimestichezza quali la medicina o l’aereonautica), questa terribile confusione tra miniaturizzato e progredire verso non si sa bene dove, in quanto tutto automaticamente più facile ceda il passo di nuovo alla fisicità anche tridimensionale del mezzo impiegato che va esplorato, soppesato, indagato con il piacere, ormai totalmente perduto, del senso tattile e visivo, ancora oggi in tempi emulsioni fotografiche e bagni di sviluppo olfattivo.

Cosa pensi della conservazione e del restauro del cinema italiano. Il termine restauro che si usa in Italia e il termine restauro che si usa negli Stati Uniti hanno la stessa valenza?

Penso che si stia facendo, con difficoltà ed una certa interessata confusione, il tentativo assolutamente encomiabile di arginare il fatale processo di distruzione che interessa in modo drammatico i film a colori. Gli USA sono un mondo lontano (non li colloco ne avanti né indietro) secoli da noi o almeno così a me appaiono. C’è un’altra mentalità ed è specificamente quella motivata quasi esclusivamente dall’interesse economico. I fondi si trovano per restaurare film che possono essere ancora sfruttati sul mercato. Certamente gli americani non spenderanno mai le cifre astronomiche necessarie ad un vero restauro se non ci sono attorno a quell’operazione prospettive di guadagno. Noi con quei quattro soldi a disposizione cerchiamo di salvare quelle che consideriamo opere significative dal punto di vista culturale. E’ un concetto totalmente diverso di concepire il cinema.

Esistono dei film che si potrebbero restaurare e sono però in un cono d’ombra, rispetto a certi più acclamati?

Certamente! Ma lo sgomitare dei viventi anche per conto dei defunti per essere tra i restaurandi ed anche con molte opere è così squisitamente italiano!

Hai una tua personale classifica dei film che vorresti vedere restaurati al più presto?

Credo che tutti, dico tutti i film, debbano essere salvati. Creare classifiche, privilegiare le proprie opere pensando che l’umanità ne sarebbe drammaticamente orfana è un pensiero che, diciamo così, mi offende. Per i futuri restaurandi tirerei, come si diceva una volta, a sorte.

Se tutti i film si girassero con tecniche digitali, il problema della conservazione e del restauro che si presenta come ospite indesiderato dopo pochi anni sulla pellicola sarebbe superato, cosa ne pensi?

Un punto a favore del digitale!

La cinematografia digitale è un treno da non perdere o solo un mezzo da abbinare alla cinematografia classica, una chance come è a volte l’uso della Steadicam?

Ogni mezzo di espressione che riesce ad affermarsi è fatalmente totalizzante. Cosa c’è stato negli ultimi centocinquanta anni di più totalizzante dell’amata e, troppo presto, credetemi, rimpianta pellicola?;

Gli esperti ritengono che un piccolo miglioramento del supporto della pellicola equivale ad un passo da gigante effettuato con la tecnica digitale.

Un punto a favore della pellicola!

Giuseppe Rotunno ha dichiarato, paragonando l’elettronica alla tecnica del film classico che: La cinematografia non è sostituibile è come il vino con l’acqua, si bevono tutti e due ma sono completamente diversi, e uno non può sostituire l’altro. Anche se a volte possono essere miscelati tra di loro. Cosa ne pensi?

Non credo che si sarebbe potuto esprimere un più saggio e distaccato giudizio di quello espresso da Rotunno su una questione che, appunto, per noi non dovrebbe esistere.

In Italia si va di più al cinema e le multisale aumentano. Spesso la multisala diventa una agorà dove i giovani scelgono di andare come pretesto in nome della convivialità, preferendo in prevalenza prodotti nordamericani o film natalizi. Si potrebbero ipotizzare delle multisale-d’essai, dove il cinema italiano venga riproposto -come avviene anche in Francia- anche molti mesi dopo la sua uscita. Una sorta di zona protetta per un prodotto quello italiano spesso di alta qualità. Che ne pensi? Cosa può fare una associazione come l’ A.I.C.?

Abbiamo cercato per anni una sala a Roma da gestire come AIC. Uno dei tanti sogni non realizzati.

Le giovani generazioni dei direttori della fotografia seguono a volte nuovi stili e linguaggi dovuti anche a percorsi professionali collaterali come i corti, i videoclip, la pubblicità. Ritengono perciò più naturale l’approccio al nuovo. Cosa ne pensano coloro che il cinema lo fotografano da molto più tempo e considerano i nuovi strumenti solo un mezzo e non un fine?

Le generazioni si sono sempre naturalmente succedute con la ferma convinzione che le nuove siano rivoluzionarie e le vecchie conservatrici. Se tale idea possa essere legittima nel campo dell’analisi storica e sociale non so, certamente è fuori luogo in attività nelle quali più che l’età vale l’ingegno.

Perché hai cominciato a fare cinema, è merito di un film, di una idea del cinema, di una persona per te importante?

E’ merito dell’ombra netta di un Pino marino stampata dal sole al tramonto contro la facciata scrostata di una vecchia casa di campagna dalle parti mie, nella Toscana marinara e maremmana nella quale sono cresciuto. Quell’ombra netta contro la parete arancione, bianca, grigia, incendiata nelle scrostature da una gigantesca pennellata di colore rosso (ton sur ton come avrei scoperto anni dopo amano dire spesso i raffinati e colti amici scenografi e costumisti nel mostrare le loro proposte di colore) mi forzò come magneticamente, a portare all’occhio la Leica (una M3 con Elmarit 50mm. F 2.8!) del padre prestatami quel giorno da un compiacente ed incosciente amico benestante. Fu la mia prima fotografia a colori e, credo, il mio primo film.

Il mestiere di direttore della fotografia con l’avvento delle nuove tecnologie diventa in questi ultimi anni più immediato; il rito della visione dei giornalieri in sala di proiezione ha lasciato il posto spesso alle decisioni immediate dei registi, tramite il nastro magnetico, e alla realizzazione finale in montaggio Avid. Lo ritieni una conquista o un passo indietro?

Ho sempre avuto difficoltà a pensare in termini di ategorie. Mi viene naturale pensare in termini di singole persone, di singole individualità, pur essendo per scelta ed educazione, estremamente rispettoso delle categorie che affrontano la vita in grandi organismi, in grandi gruppi senza poter godere delle libertà ma anche delle molte catene del lavoro individuale saltuario.

Ma poi il nostro, il fare cinema in generale intendo, a voi sembra un lavoro? A me è sempre apparso come qualcosa di meno e qualcosa in più.

Mario Bava, prima direttore della fotografia poi regista e alchimista degli effetti speciali riteneva il cinema un qualcosa di molto artigianale, che iniziava nelle idee, nella testa e finiva nelle mani, e nella realizzazione anche povera ma di grande effetto. Per te si dovrebbe tornare alle idee che ispirano chi deve illuminare, alle buone sceneggiature dove le parole sono i veri effetti speciali?

Mario Bava rappresentava il perfetto simbolo del geniale artista-artigiano che, nel chiuso e nel segreto della sua oscura bottega riesce a dar vita, con pochissimi ed essenziali mezzi tecnici ed una dose sconfinata di inventiva, a straordinari manufatti. Questo per me oggi egli rappresenta, simbolicamente, anche al di là dei suoi film. Non credo che la volontà abbia molto a che fare con quel perfetto mistero che si chiama creazione di un’opera narrativa e quindi non vedo come per volontà si possano riprodurre le condizioni del cinema di allora anche se allora Mario Bava era semplicemente ignorato.

A proposito non credo che nessuno di quei grandi pensatori che stilano le liste si sia preoccupato di inserire un suo film, magari uno solo, grazie e scusate il disturbo, tra i film restaurandi.>

Non vedo poi perché le parole dovrebbero essere i nuovi effetti speciali del cinema! Ciò mi sorprende da parte di persone che praticano il mestiere dell’immagine. So che trattasi di slogan di successo ma come tutti gli slogan c’è una bella parte di pericolosa demagogia. Il cinema è sempre stato, sin dalla sua origine, e lo abbiamo già detto, pieno di effetti speciali. C’è sempre stato il cinema della fantasia e quello della realtà. Il primo ha sempre avuto bisogno di effetti speciali e siccome questo tipo di cinema spesso si mescola vicendevolmente all’altro gli effetti speciali sono diciamo così diventati una seconda natura del cinema ed una continua tentazione dei cineasti. Sinceramente non considero il cinema sonoro più interessante del cinema muto anzi se un invito potessi rivolgere da un palco ben più autorevole del semplice tavolo della camera d’albergo nella quale mi trovo a battere su questi tasti elettronici, sarebbe proprio quello lì, frenare il fiume di parole che ha sommerso quella che un tempo era una forma di rappresentazione puramente visiva e che aveva raggiunto altissimi livelli di espressività. Oggi nella stragrande maggioranza dei casi, l’immagine non è più l’elemento essenziale del film bensì una sorta di indispensabile complemento (del resto ve lo immaginate un film senza immagini?), spesso anche considerato con sufficenza e per assurdo un quasi inutile e mal sopportato ingombro, che quindi come tale non ha necessità di essere particolarmente accurato, per non dire con più precisione centrato" con il tema del film sino a diventare segno distintivo, il segno che tutti gli altri segni, tra cui anche la parola, ingloba. Perché qui mi pareva di aver capito, si parla di cinema cioè di immagine e non di radio o di letteratura cioè di parola pura. Tra le altre cose non mi pare poi che il cinema italiano ridondi di effetti speciali e spesso ne ho sentito lamentare l’assenza, dati i costi che tali effetti rappresentano. Qualcosa mi sfugge: da una parte critichiamo il cinema americano per l’uso smodato di questi effetti, da un’altra vorremmo poterne avere un pochino anche noi! Guardiamo i francesi che sono nel giusto mezzo. Fanno film molto interessanti senza effetti speciali e film di più ampia struttura con molti effetti speciali e in ciò sono diventati bravissimi.>

Che il problema del digitale cattivo che schiaccia la buona pellicola sia un falso problema? Che il vero problema del cinema... italiano... stia altrove?